Il canto della balena

Il romanzo di Corrado Sobrero “Il canto della balena” stupisce perché inatteso, completamente fuori dai cliché attuali, non patinato, senza alcuna storia d’amore strappalacrime, interventi sovrannaturali, lutti improvvisi.

Al contrario, l’autore riesce a destare l’interesse del lettore grazie a continue soluzioni originali e brillanti, a personaggi abbastanza poetici e sognanti da ricordar bene quel clima letterario sudamericano richiamato anche dall’ambientazione della vicenda e dall’ingenuità verace della protagonista.

Tutta la narrazione gira attorno ad un’isola, scoperta alla sua nascita per caso fortuito da una famiglia di pescatori e contadini che, grazie all’intuito e allo spirito straordinario della figlia più piccola, riesce a governare le proprie sorti nonostante le difficoltà portate dal progresso e dalla sorte.

Diverte conoscere i componenti della famiglia e i personaggi secondari, tutti abilmente descritti e strutturati secondo indoli e desideri propri e credibilissimi.

In alcuni passaggi l’estrema astuzia e capacità oratoria della piccola protagonista rischiano di disincantare il lettore e staccarlo dal resto della narrazione, ma nel complesso la struttura e la storia sono ben calibrate e piacevoli, impregnate di un senso fiabesco e al contempo avventuroso che fanno del romanzo un’ottima prova d’autore.


Su i-Libri puoi leggere l’intervista di Nicoletta Scano all’autore Corrado Sobrero.
 

I bambini osservano muti le giostre dei grandi

Remì non è un bambino come tutti gli altri. E’ vero, ha dieci anni, frequenta la quinta elementare, ha una fidanzatina e il suo micro pugno magico che lo tira fuori dalle situazioni più delicate. Il piccolo Remì ha, però, anche una famiglia ‘particolare’ ed è proprio questa che lo rende diverso da tutti gli altri bambini della zona.

Il nonno del nostro piccolo protagonista è infatti un boss della camorra. Un uomo terribile che tiene sotto pressione tutto il quartiere ma che incombe anche all’interno delle mura domestiche. Un nonno forte, prepotente che decide della vita e della morte di chiunque e che impedisce ai genitori di Remì, con i quali vive, di decidere della propria vita. Così quando la mamma di Remì fugge con un altro uomo, il nonno ordina al figlio di trovare e uccidere la nuora fedifraga e il suo amante e di lavare con il sangue l’onta subita.

E’ a questo punto che il bambino deciderà di dare una svolta alla sua vita e all’intera famiglia divenendo lui stesso padrone del proprio destino e lottando per salvare la persona cui tiene di più al mondo, la sua mamma. E’ una lotta impari la sua. Un bambino fragile, afflitto da un’imbarazzante debolezza intestinale, che affronta il terribile boss e la sua cricca cercando di fargli cambiare idea e salvare così la donna che l’ha messo al mondo.

Giuseppe Marotta adopera un linguaggio semplice, descrivendoci il terribile mondo della camorra con gli occhi spaventati ma limpidi di un bimbo. Il linguaggio che sceglie sfiora di continuo il dialetto della sua terra riuscendo però a restare comprensibile anche per il lettore che non conosca il napoletano. La bravura di quest’autore sta anche nel rendere umani personaggi che potrebbero essere considerati tutt’altro che tali e nel ridicolizzarli mettendo a nudo le loro debolezze e le loro fobie.

“I bambini osservano muti le giostre dei grandi” è un romanzo crudo, che fa arrabbiare, spaventa e che avvilisce poiché descrive con lucido realismo un mondo che nessuno vorrebbe conoscere. Allo stesso modo però è una storia che trova la sua forza nella sottile ironia della penna dell’autore e nella disperata ricerca di quel filo di speranza che conceda di avere ancora fiducia nel futuro.

Su i-Libri puoi leggere l’intervista di Donatella Perullo all’autore Giuseppe Marotta. 

I bambini osservano muti le giostre dei grandi

“È sempre così dalle mie parti. Uno fa una cosa che non deve fare. Sa che sta imbrogliando la legge, ma non gliene fotte niente. E guai, se glielo fai notare. Le leggi per questa gente, come mio zio Geggè o mio nonno e gli altri guappi e guapparielli della zona, non esistevano […]. Non c’è possibilità che la passi liscia, non c’è scampo per chi si mette contro a certa gente. Non c’è scampo perché spesso chi si mette contro a questa gente è solo, non è organizzato. Lui crede di farcela comunque, ma non tiene conto che i camorristi non agiscono mai uno contro uno: sotto sotto pure loro si fottono dalla paura. E così, per affrontare chi li contrasta, agiscono sempre in gruppo, anche se chi li contrasta è uno solo”.

Remì lo sa bene come funzionano le cose dalle sue parti, perché lui è il nipote di Don Furore un noto capo camorrista temuto nel quartiere dove la gente fa la processione per andarlo a trovare e ringraziarlo, manco fosse un re.

D’altronde per la gente il boss Raffaele Cafuro – chiamato Don Furore – è come un re a cui chiedere protezione e, se serve, di “sistemare le cose”. A poco importa che i favori siano pagati con il silenzio e il pizzo che, a Napoli, poi si chiama non a caso “camorra”.

Quello che avviene in casa Cafuro e del figlio poco promettente Toro Seduto, ce lo racconta il piccolo Remì, come fosse una famiglia qualsiasi da descrivere con tutte le debolezze e le miserie quotidiane. In fondo Remì va a scuola e lui, di camorra, sa quello che gli racconta il nonno quando lo porta a sparare sul Vesuvio, zio Geggè che latita fuori e dentro Napoli come se niente fosse e la madre che, entrata per scelta e per matrimonio nella famiglia Cafuro, né uscirà “pentita” come capita in certe famiglie e clan.

Remì osserva e, anche se va ancora alle elementari e si caga addosso dalla paura, le cose le vede e si fa delle domande. E’ legato da amore filiale e da un certo timore rispettoso ad una famiglia di camorristi ma Remì, quando le cose sono sbagliate, le capisce e sa anche che le risposte non le può cercare dentro il clan se non vuole rischiare, anche lui, di prendere “papagne” dal nonno-boss o finire, peggio ancora, massacrato nella piazza del mercato. Le regole del clan infatti sono ferree: non si sgarra e chi sgarra, anche se della famiglia, finisce dentro un palo di cemento di qualche cantiere aperto.

Remì è un bambino come un altro, costretto a vivere una vita come poche, anelando una normalità che i suoi coetanei non sanno neppure apprezzare.

“Ma perché mi avevano fatto nascere? Mi chiesi spesso in quel periodo. E perché ero nato proprio in quella famiglia? Napoli era piena di gente onesta, tranquilla.[…] E se fossi nato in una di quelle famiglie avrei detto a mio padre di portarmi via da qui, per non essere impallinato e morire una mattina presto mentre andavo a scuola con la cartella sulle spalle o mentre giocavo a pallone sotto casa”.

A Remì ci si affeziona per la sua ironia, per le sue amare considerazioni sulla vita, sul mondo, nonostante l’età, nonostante tutto. Dal suo punto di vista ogni cosa si potrebbe sistemare facilmente, se solo le cose funzionassero e le istituzioni non si perdessero – vinte – prima ancora di entrare nel cuore della camorra. I cattivi sono quelli che le leggi non le rispettano, i buoni gli altri: così dovrebbe essere e Remì si chiede perché nella realtà succeda diversamente.

In fondo che ci vuole se tutti – i buoni – vogliono la stessa cosa?

“Per me la rivoluzione dovevano farla veramente e in fretta, perché prima la facevano, e prima Don Furore andava a farsi fottere in galera, se non finiva prim’ancora ammazzato”.

La lucidità di Remì e del suo pensiero sono disarmanti: ecco forse perché l’autore ha scelto di farcela vedere attraverso i suoi occhi, la camorra, dentro e fuori da una Napoli impotente e disarmata di fronte alla violenza di un sistema di cose fortemente radicato nella mentalità, nella vita e nella paura delle persone.

E’ un libro che parla di “certe cose” con la schiettezza e la linearità che solo una mente libera e svincolata da preconcetti può fare. La denuncia sociale è forte proprio perché non vi sono giustificazioni o attenuanti per come le istituzioni, assenti o distratte, affrontano il problema.

Dentro a queste pagine si respira Napoli, quella dei vicoli, del dialetto, delle regole scritte e non scritte, della sua storia che è tante cose: una città che l’autore conosce bene anche se vive lontano.

Giuseppe Marotta è uno scrittore esordiente che ha molte cose da dire e sa come dirle. La sua scrittura è diretta, emozionata, consapevole, ironica. Le pagine scorrono proiettate in avanti, su un motorino in discesa, senza la paura di cadere. Una bella sorpresa e un libro che ti rimane dentro.

Da leggere.


Su i-Libri puoi leggere la recensione originale di Lucilla Parisi.
 

Le 30 opere finaliste dell’edizione 2012 del Torneo Letterario IoScrittore

Proclamate al Festivaletteratura di Mantova le 30 opere finaliste e i 10 migliori lettori dell’edizione 2012 del Torneo Letterario IoScrittore. Molti degli autori presenti all’evento hanno raccontato con parole cariche di emozione la propria opera. Rinnoviamo ancora una volta i nostri ringraziamenti a tutti coloro che hanno partecipato all’edizione 2012 di IoScrittore!

Il video dell’evento di Mantova

Opere finaliste

Acqua passata
Adios
Angeli primo amore
L’anima nera di Catena Claps
L’Aquila e il Serpente
Astralabius
Ben Nahid
Cammina, Cardone
Capistrano batte un colpo. Storie di un poliziotto comunista
Il cielo buio di domani
Città sporca
La clinica dei bambini intelligenti
Cogas
Il colore del vento
Il consigliere Martin Navager
Domani è un altro giorno
Donne donne un po’ streghe un po’ madonne
Due vite possono bastare
Era un’estate senza tormentone
L’innocenza del licantropo
L’isola degli internati
Lenora
MuraMura
Nika
Ophelia e le officine del tempo
Passione sepolta
Ri-de-re
Sangue calvo
La sesta goccia d’acqua
Vetro

I 10 migliori lettori

Agi, Altredonne, Anna Perenna, Gheort, Joe Ferris, Karialassis, Ocean, Pippo Cavallo, Tom Cushing, Val Profane