Possiamo smettere di dire che insegnare è “una missione”?

Ci fosse una volta in cui non me lo dicono.

Il dialogo si svolge più o meno così:
– E tu che fai?
– Be’ io sono un insegnante.
– Dai bello!
– Grazie!

Un attimo di silenzio, e poi…
– Certo, il vostro lavoro alla fine è una missione

Praticamente questa frase ha raggiunto il prestigioso status di luogo comune, proprio come “Non c’è più la mezza stagione” e “I giovani non son più quelli di una volta!“. Esultiamo, tutti insieme.

Possiamo dirlo a gran voce, però?

No, insegnare non è una missione.

Missione è una parola pericolosa. Sapete perché? Perché evoca tutto un mondo diverso da quello che è – o almeno dovrebbe essere – l’insegnamento: la dici e subito ti saltano in mente immagini di preti nelle favelas, suore nelle zone di guerra, Robert De Niro che porta carichi più pesanti di lui nel fango mentre in sottofondo corre il Gabriel’s oboe di Ennio Morricone.

Insomma: un lavoro che fai per gratuita completa dedizione. Come un immolarsi, un sacrificarsi.

Allora qui sorge spontanea una domanda: direste mai che fare il chirurgo è una missione? Che lo è fare l’avvocato? L’ingegnere?

Eppure, anche l’insegnante ha bisogno di un percorso di studi altamente professionalizzante. Anche lui – o lei – deve accumulare anni di tirocini formazioni corsi ricorsi esami.

Comunque.

Sapete perché dovremmo smettere di dirlo?
Perché missione è una definizione che sposta questo lavoro così complesso dalla parte dei “lavori che sono pagati ma potrebbero essere anche gratis”.
Di quelle cose che fai quasi per un anelito di volontarismo. O di quelli che un po’ ti pagano e un po’ no, quasi come un riconoscimento simbolico.

Che è abbastanza vero, eh: se andiamo a vedere la media degli stipendi degli insegnanti italiani rispetto a quelli degli altri paesi europei, rischiamo davvero il coccolone.

Però però.
È così che l’insegnamento si innesta nell’immaginario. Le parole sono importanti e il fatto che si usi sempre questa – “missione” – quando si parla dell’insegnamento significa che, semplicemente, non abbiamo capito cos’è e cosa fa un insegnante.

Provo a spiegarlo io, in base a quello che ci ho capito.

Un insegnante è un professionista. Esattamente come un chirurgo, un avvocato, un ingegnere.

Un insegnante è una persona con specifiche competenze in ambito educativo.

Un insegnante è qualcuno a cui è assegnato l’importantissimo compito di occuparsi della formazione culturale e umana dei vostri figli.

Un insegnante è, anche, un pubblico ufficiale. Un rappresentante delle istituzioni che, come un agente delle forze dell’ordine, un politico o un magistrato, ha il compito di gestire un complessissimo ambito della vita pubblica: la scuola.

E infine.

Un insegnante è un artista.
Sì, uso questa parola, perché insegnare è prima di tutto un’arte. Che richiede talento e studio, predisposizione e lavoro continui. E che non è da tutti, proprio come ogni arte.

Che dite possiamo darci, come missione, di non chiamarla più una missione?

L’AUTORE – Enrico Galiano sa come parlare ai ragazzi. In classe come sui social, dove è molto seguito. Insegnante e scrittore classe ’77, dopo il successo dei romanzi (tutti pubblicati da Garzanti)  Eppure cadiamo feliciTutta la vita che vuoiFelici contro il mondo, e Più forte di ogni addio, ha pubblicato un libro molto particolare, Basta un attimo per tornare bambini, illustrato da Sara Di Francescantonio. È tornato al romanzo con Dormi stanotte sul mio cuore, e sempre per Garzanti è uscito il suo primo saggio, L’arte di sbagliare alla grande. Con Salani Galiano ha quindi pubblicato la sua prima storia per ragazziLa società segreta dei salvaparole, un inno d’amore alle parole e alla lingua. Ed è poi uscito per Garzanti il suo secondo saggio Scuola di felicità per eterni ripetenti.

Il suo nuovo romanzo è Geografia di un dolore perfetto (Garzanti).

Qui è possibile leggere tutti gli articoli scritti da Galiano per ilLibraio.it.

Fonte: www.illibraio.it

Katherine Mansfield e la felicità di scrivere

Katherine Mansfield sembra il nome di un’eroina di Charlotte o Emily Brontë (si chiama Katherine la gloriosa – e capricciosa – protagonista di Cime tempestose) o, ovviamente, di un personaggio cocciuto e brillante di Jane Austen, che proprio quel “Mansfield” lo usa per dare nome a una magione ricca e conservatrice nelle oziose campagne del Surrey.

La Mansfield autrice è tutte queste eroine cucite insieme: quelle scritte dalle sue venerate colleghe precedenti, e anche solo quelle immaginate. Nata nel 1888, pubblicò i suoi primi racconti che era ancora piccola e morì a soli trentaquattro anni, nel gennaio 1923, vivendo nel mezzo una vita che, a quei tempi, avrebbe potuto facilmente essere definita viziosa, libertina, e che, a vederla ora, appare affascinante e così figlia del suo tempo, da bohémienne, un’epoca d’oro per scrittrici e scrittori (purtroppo sempre in maggioranza).

Nel 1923 è ricorso il centenario dalla sua morte, e per questo motivo la casa editrice Adelphi ha deciso di raccogliere tutti i racconti nel volume Qualcosa di infantile ma di molto naturale, con le traduzioni originali di oltre ottanta racconti.

Katherine Mansfield qualcosa di infantile ma di molto naturale

Spesso, quando le storie di vita sono incredibili e rivoluzionarie come la sua, raccontare il personaggio rischia di offuscarne la scrittura e la produzione letteraria, che nel caso di Mansfield è stata vasta. Anche la morte, e non solo la vita di Mansfield, è stata affascinante e non senza un alone tragico tardo-romantico.

Racconteremo la sua biografia perché non si può slegare un’autrice dalle sue esperienze, ma proveremo a farlo intessendola con i suoi racconti, per non sottrarre tempo a ciò che davvero interessa agli amanti della letteratura, e cioè la sua prosa.

Katherine Mansfield aveva sempre saputo di voler essere una scrittrice, a dieci anni aveva scritto il suo primo racconto, e poi non ha più smesso. Ebbe molto successo, riconosciuto anche durante la sua breve vita.

Neozelandese, arrivava da una famiglia agiata, ma non crebbe col mito della ricchezza: anzi, come spesso succede, provava verso quel mito una specie di repulsione e ironico distacco. Il suo sguardo si spostava spesso dai benestanti ai più poveri, dai colonizzatori ai colonizzati, mettendo in luce le ingiustizie, piccole e grandi.

Andò a Londra per la prima volta a quindici anni, dove frequentò il Queens College e dove cominciò a pubblicare racconti. Qui divenne amica di Ida Baker, che da allora ebbe sempre un ruolo centrale nella sua vita. Lasciò definitivamente la Nuova Zelanda a diciannove anni per diventare scrittrice in Inghilterra.

In quel periodo pubblicò poco, ma ebbe due relazioni stabili, una con un ricco uomo inglese, e una con una donna di nome Edith, di cui parlò nei suoi diari, pubblicati dopo la sua morte (e contro la sua volontà) dal suo secondo marito. Per approfondire ulteriormente la figura di questa scrittrice, c’è (e per chi parla inglese) una puntata dedicata a Katherine Mansfield del podcast The History of Literature del magazine LitHub che racconta nel dettaglio la sua vita, e dà l’assaggio di un suo bellissimo racconto The Garden Party, pubblicato nel 1922.

Katherine Mansfield e Ida Baker, Hazel Steiner Katherine Mansfield e Ida Baker, Hazel Steiner

Ebbe relazioni con molti uomini, Mansfield, e a vent’anni, dopo essere rimasta incinta di uno, ne sposò velocemente un altro, per sistemarsi, per poi lasciarlo subito dopo il matrimonio e continuare a convivere con Ida Baker. Per partorire di nascosto, fu mandata dalla madre in una clinica in Baviera. Ebbe però un aborto: un buon motivo, secondo la madre, per diseredarla.

A quel punto Mansfield ricominciò a scrivere. Scriveva articoli per un magazine socialista, ed ebbe una relazione con un’altra donna. Nel 1910 una delle sue storie fu pubblicata su Avantgarde, e qui conobbe il suo secondo marito, John Middleton Murry, che le fece da editor. Un uomo detestato dalla comunità letteraria, la convinse a scrivere racconti più bui.

Nel 1911 uscì la sua prima raccolta Una pensione tedesca, che ebbe un buon successo, ma che – come ricorda Murry nella prefazione – con gli anni Mansfield ripudiò con amarezza, ascrivendolo alle esperienze giovanili.

Crescendo, e attraversando la vita, Mansfield fu influenzata da Oscar Wilde, da James Joyce, da Vincent Van Gogh, sia nello sguardo sul mondo che nelle tecniche per raccontarlo, per scriverne. Uno sguardo attento, che descrive un mondo esistente e verosimile, ma anche estremamente frastagliato, discontinuo, fatto di discorsi origliati, pensieri spezzati, cambi di prospettiva, memorie incerte. Non ci sono cause ed effetti perfettamente visibili, come non c’è il vero e non c’è il falso, o ci sono due verità, o tre, o infinite.

“Ecco come aspiro a scrivere. Niente effetti di stile, niente virtuosismi. Solo la nuda verità, come soltanto un bugiardo sa dirla.”

Dopo un primo tentativo di romanzo, L’Aloe, rimasto incompleto, più che incompiuto, – perché avrebbe voluto riempirlo, con il passare degli anni – ispirato alla sua infanzia in Nuova Zelanda, questa sua natura frastagliata prende forma in un racconto lungo, Preludio, scritto attraverso lo sguardo di Kezia, la figlia più piccola di una famiglia, che osserva il trasloco da una casa all’altra, raccontando i suoi familiari, ma soprattutto gli inservienti, le domestiche e i loro figli.

Quando si parla di Mansfield non si può non citare una contemporanea che nel 1917 le chiese un racconto per Hogarth Press, la sua casa editrice. Si tratta di Virginia Woolf che fu una delle massime esponenti del modernismo, una corrente che conta tra le sue fila la stessa Mansfield, James Joyce, T. S. Elliot, Y. B. Yates… e che le commissionò proprio il racconto Preludio.

Come spesso viene ricordato, Virginia Woolf, che negli anni divenne amica e rivale di Mansfield, nei suoi diari scrisse che gli unici lavori di cui fosse invidiosa erano proprio quelli della sua collega Katherine Mansfield. L’autrice e traduttrice Nadia Fusini racconta, parlando del suo romanzo dedicato alla figura di Katherine Mansfield, La figlia del sole (Feltrinelli) che quando l’autrice morì prematuramente, Woolf si chiese chi avrebbe ora letto le sue pagine: aveva infatti perso una avversaria nel mondo della letteratura, forse l’unica che lei avesse considerato tale.

Virginia Woolf, giugno 1926 Corbis Historical (1) Virginia Woolf, giugno 1926, Corbis Historical

Come Qualcosa di infantile ma di molto naturale, le sezioni del volume, che richiamano le raccolte pubblicate, hanno titoli vivaci, da cocktail party, da vestiti dalle tinte pastello indossati in giardini verdi di pioggia: Felicità, Il nido delle colombe, Una pensione tedesca, così come i racconti, per citarne alcuni Il suo primo ballo, Un’avventura vera, Il viaggio per Bruges, La giovinetta, Bagni turchi, Un viaggio spericolato, Luna di miele. Catturano un’immagine molto più bucolica, mansueta e riflessiva, rispetto a quella che conosciamo. Non è un caso che per la copertina sia stata scelta una donna che, vestita elegantemente, passeggia in un prato, mentre tiene il cappello a tesa larga per timore che le venga portato via dal vento, un dipinto di John Singer Sargent, di gusto impressionista.

Tra i balli, i pic-nic e le piccole perfidie borghesi, la penna di Mansfield è sempre divertita, sempre più alta, più risoluta, spietata.

Nel 1917, quando aveva circa trent’anni, le fu diagnosticata la tubercolosi, poco tempo dopo aver perso il fratello. Questi avvenimenti le fecero venire una feroce mancanza della Nuova Zelanda, dove non poté tornare a causa della malattia. Il suo rapporto con Murry era sempre stato tempestoso e faticoso, e lo divenne sempre più man mano che la malattia si acuiva.

Non è un caso che chi l’ha tradotta, ancora più di chi l’ha amata leggendola, abbia un legame con lei che è quasi famigliare. Grazie alla vicinanza forzata dal mestiere con la sua lingua, con i suoi giochi e le sue vivacità lessicali, i traduttori hanno potuto ammirare ancora di più la sua brillante intelligenza e lo sguardo fine, pungente.

Franca Cavagnoli, traduttrice e autrice italiana, ricorda in un articolo che “negli ultimi anni della sua vita, costretta a passare da una camera d’albergo all’altra sulla Costa Azzurra o sulla Riviera del Ponente ligure perché la tisi di cui soffriva da tempo si era ormai aggravata, Katherine Mansfield portava con sé degli scialli variopinti, a fiorami, che disponeva in giro per la stanza: sul letto, sul piccolo tavolo da lavoro davanti alla finestra, su una poltrona. La facevano sentire sempre a casa.”

Mansfield scrisse alcuni dei suoi migliori racconti nei tre anni prima di morire e pubblicò due raccolte, tra le più conosciute, Bliss (1920) e The Garden Party (1922). Morì a trentaquattro anni in un sanatorio francese, proprio come un’eroina tragica, cadendo una lunga scalinata.

I racconti incompleti, presenti nella raccolta, sono molti, e forse per la loro natura incompleta, nascosta e misteriosa, sono quelli che contengono un germe di possibilità che tende all’infinito.

Mr e Mrs Williams, il racconto di due coniugi che si preparano per una vacanza in Svizzera, termina durante una conversazione tra i due, mentre il marito si sta radendo e dice che spesso le ottime idee gli vengono radendosi. Come molti altri di questi racconti si interrompe nel bel mezzo di una frase, come se a Mansfield fosse venuto in mente di fare qualcos’altro, alzarsi per andare a preparasi una tisana, avvolgersi in uno scialle e, magari, travolta da un accesso di tosse, avesse poi dimenticato di tornarci, troppo indaffarata, lasciando tutti noi così, intontiti e assetati, alla fine di quei punti di sospensione…

“La vita, per me, non è mai abitudine. È sempre meraviglia.”

Fonte: www.illibraio.it

Sette errori da evitare quando ci si iscrive a IoScrittore

Partecipare a IoScrittore offre da sempre un’incredibile duplice opportunità.

  • Farsi notare e magari riuscire a pubblicare con una delle case editrici del gruppo editoriale Mauri Spagnol, tra le più importanti d’Italia.
  • Ottenere giudizi, consigli e recensioni al proprio romanzo, utili per migliorarlo e renderlo più completo.

Tuttavia per iscriversi al torneo letterario IoScrittore è necessario rispettare i termini previsti dal regolamento, ma soprattutto non compiere alcuni errori che potrebbero pregiudicare la partecipazione se non addirittura portare a una vera e propria squalifica dal torneo.

Ecco quindi 7 comunissimi errori assolutamente da evitare quando ci si iscrive a IoScrittore.

  • Errore n. 1: Partecipare con un romanzo già pubblicato.
    Il romanzo con cui si partecipa a IoScrittore deve essere inedito, o, se precedentemente pubblicato su piattaforme di self publishing, non essere più rintracciabile attraverso elementi (brani, titolo, giudizi) che permettano di risalire all’identità dell’autore.

  • Errore n. 2: Non eliminare i propri dati dalla proprietà del file di incipit.
    Conviene controllare sempre che nella voce proprietà del menu del proprio editor di testo non compaiano il proprio nome e cognome. Nel caso vanno eliminati per non essere squalificati per violazione della regola sull’anonimato.

  • Errore n. 3: Lasciare online o nel testo dell’opera riferimenti alla tua identità.
    Elementi che possano collegare il romanzo alla reale identità del suo autore comportano la squalifica. Non bisogna dunque usare lo stesso titolo utilizzato in altri concorsi letterari dove la propria identità era pubblica, fare riferimento nel testo ad altri libri scritti, usare lo stesso pseudonimo utilizzato in libri già scritti, citare la propria email o addirittura nome e cognome.

  • Errore n. 4: Non rispettare i limiti minimo e massimo di battute indicati nel regolamento.
    Non rispettare tali limiti può comportare il blocco del caricamento o una segnalazione di irregolarità successiva.

  • Errore n. 5: Scrivere una sinossi che non rispetti il romanzo.
    Una volta terminata la fase di iscrizione e caricamento incipit la sinossi non potrà più essere cambiata, di conseguenza in caso di revisione del romanzo durante il torneo si rischia di avere una sinossi che non combaci con il romanzo che è assegnato al giudizio dei lettori. Questo può causare una penalizzazione nelle valutazioni finali.

  • Errore n. 6: caricare l’incipit nelle ultime ore del giorno della scadenza.
    Completare l’iscrizione all’ultimo momento non lascia margine di supporto da parte dell’helpdesk in caso sorgano problemi tecnici o imprevisti che impediscano di caricare l’incipit del romanzo in tempo utile.

  • Errore n. 7: cancellarsi dalla mail IoScrittore.
    Togliere l’iscrizione alla mailing list del torneo significa non ricevere più nessuna mail di aggiornamento sulle varie fasi e tutte le attività collegate.

Preso nota di questi consigli, caricato il proprio incipit, non resta che prepararsi per le prossime fasi del Torneo Letterario.

In bocca a lupo a tutti i partecipanti alla nuova edizione!

“L’ultimo dei Mohicani” è una scatola nera: Laura Pugno torna con “Noi senza mondo”

“Se mai abbiamo pensato il mondo vuoto, un mondo in cui siamo soli e perduti, non è questo”.

Noi senza mondo, il nuovo libro di Laura Pugno per Marsilio, è un’avventura interiore. Non è un memoir o una ricostruzione autobiografica, in quando l’anima in cui l’avventura si svolge non è esattamente quella di Pugno, che pure ne è l’autrice, ma è l’anima del mondo.

La scrittrice e poetessa classe ’70 ritrae quel mondo che abbiamo intorno e che è fatto di parole, molte delle quali in forma di libro, di animali, foglie, frutti e cose invisibili che sono tutte insieme più vaste e larghe di noi. Non finisce il mondo, finisce un mondo. E raccontando un passaggio di articolo – “il” articolo determinativo, “un” articolo indeterminativo – Laura Pugno traccia una strada per la coesistenza che rompe la dominanza dell’essere umano e del maschio sul contesto.

Per farlo, l’autrice – che dal 2015 al 2020 ha diretto l’Istituto Italiano di Cultura di Madrid – parte dai suoi pensieri, parole opere e omissioni, e dal romanzo L’ultimo dei Mohicani di James Fenimore Cooper. Noi senza mondo è dunque avventura interiore di un’anima collettiva, riflessione su cosa significhi scrivere e su quale sia il senso della poesia, sull’importanza della lettura, della memoria, e pure della dimenticanza.

Laura Pugno Noi senza mondo

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo in esclusiva un brano:

Scatola nera

Il potere della scatola nera non risiede nel fatto che nasconde una risposta conoscibile, ma nel fatto che simboleggia i limiti della conoscenza… La scatola nera non può essere aperta perché, in quanto unità indivisibile e misteriosa, indica l’inconoscibile in sé.

Katherine Hayles, L’impensato. Teoria della cognizione naturale
traduzione di Silvia Dal Dosso e Gregorio Magini, effequ 2021

 

Per molto tempo non ho saputo davvero perché io abbia scelto di scrivere di questo libro.

L’ultimo dei Mohicani non è per me un libro dell’infanzia o dell’adolescenza. Eppure, sapevo di doverne scrivere qui, come si sanno le cose della scrittura, con la completezza del corpo.

Come si sanno queste cose è nell’oscurità, che poi diventa, quando la scrittura è finita, chiarezza, bagliore. Il tempo che questo percorso richiede non è negoziabile, o il libro non può essere scritto, e muta ogni volta, nessuno di noi può saperlo in anticipo.

In qualche modo, in prosa, il progetto calma l’attesa della mente, l’incertezza, l’apertura verso qualcosa che potrebbe, o potrebbe anche non esserci, la caccia, la quest.

Di fronte a questa necessità di tempo ho preso tempo.

Ho cercato intorno a me le tracce che il libro a venire mi lasciava in altri libri, ho seguito la sua pista, l’ho perduta e ritrovata. Ho rimandato molto a lungo, ho esitato molto a lungo, adesso è venuto il momento.

L’intermittenza è diventata chiara? Ancora no, ma appaiono i primi bagliori. Ora alcune cose di questo libro le so, o le sa quella parte – il tutto – di me che scrive.

Cos’è che non sai, che non sappiamo ancora?

Questo libro è una ricerca, seguendo una pista che nel romanzo è appena accennata, in ciò che non è scritto come in ciò che vi è scritto.

L’ombra, il rovescio del romanzo che esiste, ciò che è lasciato fuori quadro, che è inaccettabile al suo autore come ai suoi personaggi, e per generazioni e generazioni alle sue lettrici e ai suoi lettori, fino a oggi.

Quello che appare come in uno specchio al rovescio, mentre un mondo scompare.

In un certo senso, L’ultimo dei Mohicani è una scatola nera, un dispositivo per immagini o ologrammi che proietta intorno a noi un bosco.

Un mondo in cui accade la fine di un mondo.

Una scatola per conservare l’oscurità.

Dopo il disastro aereo, la scatola nera può risultare illeggibile. Il libro recuperato dall’alluvione, dalla frana della diga, può essere tanto danneggiato dall’acqua da rimanere indecifrabile. Lo scritto ritrovato in una necropoli, una sepoltura già quasi completamente ricoperta dal verde, già mondo-senza-di-noi, può essere tracciato in una lingua ormai completamente perduta, non traducibile senza una stele di Rosetta che la sveli.

Il libro, L’ultimo dei Mohicani, The Last of the Mohicans, sta quindi come un oggetto che contiene storie possibili, percorsi di scrittura e di lettura che se ne sono dipanati, quelli che racconterò qui.

Non è il contenuto reale di TLOTM_1826 (The Last of the Mohicans + la data di prima pubblicazione, la sigla lo rende simile al nome di una stella, qualcosa di abbagliante e sfuggente in una galassia lontana, una luce che ci arriva dal passato e che intanto ha smesso di splendere) a contare qui – al punto da essere stato sottoposto, nei film, nei fumetti e nelle storie che ne sono derivate negli anni trascorsi da allora, a una sorta di permutazione continua – quanto piuttosto, e questo è cruciale, il calore che ancora ne emana.

Emanare calore, la legge minima dei corpi vivi.

Forse, però, è più giusto che la sigla sia TLOTM_1757, l’anno della guerra franco-indiana in quello che oggi è lo stato di New York nel quale è ambientata la vicenda, trentadue anni prima della nascita di James Fenimore Cooper (1789-1851), in un tempo prima del tempo, prima della Rivoluzione americana, quando si decidono le sorti di enormi regioni del mondo, un crinale che non sa di esserlo.

(Nel 1769 James Watt brevetta la macchina a vapore, inizia l’Antropocene; inizierà molte altre volte nella Storia, forse è iniziato ancora prima, lo sappiamo adesso.)

Un mondo in cui il nome del mondo – come direbbe Ursula K. Le Guin, The Word for World is Forest – è bosco, foresta.

Un bosco abitato da presenze che ci precedono, una foresta di cui nonostante tutto vogliamo appropriarci come se fosse nostra dall’origine, un luogo che appare in qualche modo familiare e che allo stesso tempo è unheimlich, perturbante, perché è come i boschi della vecchia Europa da cui siamo fuggiti e allo stesso tempo non lo è.

Quella differenza perturbante che faremo, abbiamo fatto, scomparire. Vediamo, nella scatola nera, ciò che scompare, e come è scomparso.

E vediamo che contiene, questa scatola nera, TLOTM, pensieri non ancora del tutto pensati. Pensieri per chi l’ha scritto, per la sua epoca, non del tutto pensabili. Pensieri che ancora non abbiamo finito di pensare, o forse neanche cominciato.

(Hai sempre pensato che questa fosse la funzione della poesia, pensare fino in fondo, fino all’oltre, e forse, vedi, può farlo anche la prosa.)

Per questa ragione, TLOTM_1826 è un libro che non ha mai smesso di essere contemporaneo, e forse ancora di più, più drammaticamente, adesso.

Non per lo stile, o per le idee che contiene, che oggi ci risultano lontane, e peggio che lontane. È un libro oscuro anche di altra oscurità, un libro che parla di conquista e dominio, di sangue e di razza, e questa parola malata lo intorbida e lo avvelena. Eppure, questo libro contiene altri libri, non ancora scritti. E contiene parole, non dette, che ritrovo in una sorta di storia naturale di libri scritti da altri e letti in questo tempo, parole come “ricerca” (inchiesta, quest), “perdita” (scomparsa, vuoto, attraversamento di quel vuoto, a volte ritorno) e “metamorfosi” (in animali, in altre forme umane, in vite che non sono la tua e la mia).

Toccando il libro, la scatola nera o oscura, come se fosse un oggetto o un corpo, un manufatto preistorico o alieno che viene dalla nostra stessa civiltà, che cosa accade? Che cosa ci appare? Animali, uomini, donne. Ciò che scompare, è scomparso, sta ancora oggi – intorno a noi, per mano nostra, a contatto con ciò che siamo – scomparendo.

Prendiamo quest’oggetto-libro, con delicatezza, come se emanasse un leggero calore, o ancora, con precauzione, come se fosse incandescente. Mettiamolo al centro di un cerchio, di noi – tu, io, e altri che verranno – riuniti in cerchio. Guardiamo le figure e vediamo balzarne fuori pensieri e sogni, come immaginazioni dal centro di un fuoco o di uno schermo. Cerchi nel grano?

Un fuoco acceso o da poco spento, le braci ancora calde, uno schermo che ancora sembra che scintilli ed emani un bagliore di luce. Appaiono vite, si dipartono piste: forse arrivano tutte in uno stesso punto, a una fine che coincide con l’inizio, e possono essere seguite in ordine cronologico, o secondo il proprio desiderio.

Ecco cosa sarà questo libro, ancora una volta un quaderno di appunti, una storia di vite e letture che portano ad altre vite e letture. Un palinsesto che, raschiato via, fa affiorare le tracce di libri di cui forse non conoscevamo o avevamo dimenticato l’esistenza, alchimia di grande e piccolo, frattali, spirali, che si ripetono in forme altre, più grandi, immense, tendenti a infinito, e sempre le stesse.

(continua in libreria…)

Fonte: www.illibraio.it