Qualche ricetta per dare sapore (e profumo) al protagonista del tuo romanzo

Tra le dieci caratteristiche del bravo lettore elencate nelle Lezioni di letteratura, gli studenti di Nabokov ne scelsero a grande maggioranza tre: l’identificazione emotiva (punto 2.), l’azione (punto 4.), e l’aspetto socioeconomico o storico (punto 3.).

Alcuni di voi hanno scelto proprio queste tre caratteristiche.
Vediamo che cosa implicano dal punto di vista dello scrittore, ovvero di chi deve costruire un romanzo.
Si tratta di privilegiare tre aspetti:
il personaggio, che innesca i meccanismi dell’identificazione;
la trama, per costruire un avvincente meccanismo narrativo;
le informazioni, perché le storie sono anche un efficace strumento per conoscere il mondo e noi stessi, sia come scrittori sia come lettori.
Imparare attraverso le storie (nelle fiabe e nei romanzi, al teatro o al cinema) vuol dire almeno due cose.
In primo luogo, significa aumentare la conoscenza di sé stessi, ovvero dell’essere umano, nei suoi sentimenti, interiorità, emozioni eccetera, ma anche nei suoi rapporti con gli altri. Questo insegnamento (che è anche una scoperta, pagina dopo pagina, per l’autore e per il lettore) nasce dall’esperienza dell’autore e/o del suo personaggio, attraverso i meccanismi dell’identificazione (vedi il punto 2. della “lista Nabokov”).
In questa direzione vanno per esempio molti romanzi rosa, ma ci è andato anche Proust con la sua Ricerca del tempo perduto.
Conoscere vuole anche dire scoprire il mondo, la realtà: per un autore di fiction può significare, per esempio, far scoprire una determinata epoca (nel romanzo storico), o esplorare un problema d’attualità o qualche risvolto della scienza e della tecnologia (lo faceva magistralmente Michael Crichton nei suoi thriller). Un dilemma su cui siamo sempre avidi di conoscenze è la differenza che c’è tra il bene e il male, e la natura del male che è in noi: un aspetto che esplorano il gialli e i polizieschi da un lato, e il thriller e l’horror dall’altro (oltre che molti classici, dove si parla spessissimo di delitti & castighi…)
Se torniamo alla risposta più gettonata dagli studenti di Nabokov, ovvero la capacità di identificarsi con i personaggi della fiction, a sostenerla è la stessa capacità che ci porta all’empatia nei confronti degli altri, e forse addirittura ci spinge all’altruismo. Uno degli aspetti più affascinanti della letteratura (e in generale della finzione) è anche questo, la letteratura (e il teatro e il cinema) ci spingono a identificarci con personaggi molto diversi da noi (dall’autore come dal lettore). Diversi per età, per genere, per origine geografica, epoca storica, per convinzioni etiche, politiche, religiose… Addirittura, a volte, un libro ci permette di identificarci personaggi che ci fanno paura, che ci ripugnano, che detestiamo: e però impariamo a conoscerli… e forse a capirli, perché sono esseri umani come noi.
Nessuno di noi (almeno spero!!!) vorrebbe essere il protagonista di un best seller mondiale come Il profumo di Patrick Süskind, l’inodore Jean-Baptiste Grenouille, maestro nel miscelare aromi ed essenze, ma soprattutto serial killer di fanciulle nella Francia del Settecento.
C’è insomma una distanza tra l’autore e il personaggio, che la lettura può aiutarci a colmare. C’è anche una distanza tra l’autore e il personaggio, persino nel caso dell’autobiografia, nel momento stesso in cui viene oggettivata sulla pagina. Così, rispetto al suo personaggio, l’autore può per esempio saperne di più (se per esempio il protagonista, e magari l’Io narrante sono quelli di un bambino), o di meno (se il protagonista è Einstein o Leonardo, magari).
Dunque scrivendo è necessario dosare con sapienza quello che fa dire e fare al suo eroe, affinché resti credibile e al tempo stesso catturi l’interesse del lettore: l’abilità artigianale, il miracolo della sensibilità dei grandi autori, sta anche nel sapiente dosaggio delle informazioni che il personaggio trasmette al lettore.
Un’ultima annotazione, ancora sul tema dell’eroe.
Ci sono personaggi che non cambiano nel corso del romanzo, che restano sempre uguali a sé stessi, con il loro carattere, le loro emozioni, le loro reazioni, i loro gesti.
Tipicamente, sono gli eroi dei romanzi d’avventura, che grazie alle loro virtù (la forza, l’astuzia, la pazienza o l’irruenza, l’anello magico del fantasy o il gadget supertecnologico della fantascienza) superano qualunque ostacolo per raggiungere l’obiettivo finale.
Non abbiamo bisogno che questi personaggi cambino, nel corso della storia, perché loro sono in grado di cambiare il mondo. Non ci aspettiamo – e non vogliamo – che Sandokan o James Bond smettano di essere l’eroe che amiamo, li vogliamo vedere di nuovi protagonisti di un’altra avventura.
Ci sono invece personaggi che nel corso del romanzo cambiano, evolvono: la realtà, le esperienze che vivono, gli incontri che fanno, il dolore e la felicità che sperimentano, li trasformano, e noi – i lettori che li accompagnano in questo cammino – cambiamo con loro. È il meccanismo che caratterizza i “romanzi di formazione”, quelli dove il protagonista, pagina dopo pagina, cresce e matura, costruendo la propria identità e trovando il proprio posto nel mondo.
Accade per esempio in uno dei grandi capolavori della letteratura, La montagna incantata di Thomas Mann, ma anche in romanzi che fin dal titolo evidenziano la crescita, l’apprendimento, il cammino verso la consapevolezza: Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe, o Le illusioni perdute di Balzac, L’educazione sentimentale di Flaubert, solo per citare tre capolavori ottocenteschi (la stessa cosa capita, se proprio volete saperlo, anche nella Divina Commedia e in Pinocchio, seppure con modalità un po’ diverse…).
Anche se poi la maggior parte dei protagonisti dei romanzi che amiamo sono un po’ un misto dell’uno e dell’altro: un po’ James Bond, un po’ Hans Castorp, un po’ Sandokan e un po’ Pinocchio: per alcuni aspetti restano uguali a sé stessi dalla prima all’ultima pagina, per altri si trasformano, evolvono, forse maturano…
Per sintetizzare, alcune domande:
che cosa mi trasmette quel personaggio? che cosa mi insegna, di me e del mondo?
che rapporto c’è tra il personaggio e i suoi due creatori, l’autore che l’ha ideato e il lettore che lo ricrea nella propria mente?
come cambia il mondo di quel personaggio? e la realtà che incontra lo cambia? e come?
quali sono gli ostacoli che affronta, dentro e fuori di sé? come li supera? chi lo aiuta e chi lo ostacola?
Nel prossimo post, se non siete troppo cattivi con me e se vi state divertendo, proveremo a discutere un po’ della trama, dell’intreccio, del plot… Ma intanto dite la vostra sui personaggi dei libri che amate e dei romanzi che state leggendo.

Che cos’è un titolo?

Il titolo sembra la faccia di un libro e invece sono le scarpe. Detto così sembra una provocazione, ma provate a pensarci. Le scarpe sono un accessorio, forse, ma sfido chiunque a uscire di casa senza, o con un paio particolarmente scomode. Marilyn Monroe diceva che una ragazza con le scarpe giuste può conquistare il mondo.

 

È proprio così. E le scarpe devo essere confortevoli, adatte all’abito e all’occasione, o ci farebbero sentire a disagio. E poi parlano di noi.
Qualche giorno fa una mia amica ne ha comprate un paio verdi e rosa, con un tacco di 8 centimetri, stringate con i lacci di raso e dalla forma un po’ anni venti. Sosteneva fossero comodissime, e infatti ci ha camminato tutto il giorno senza lamentarsi, attirava gli sguardi di tutti e moltissima ammirazione, per il coraggio, ma anche per la gigantesca dose di personalità che stava dimostrando d’avere.
Un titolo deve essere così, forte, indimenticabile, irresistibile, ma anche coerente con la storia e soprattutto giusto. Può essere più o meno lungo, deve raccontare senza svelare, incuriosire, far immaginare. E anche dopo, quando la storia è stata letta, deve continuare a rappresentarla.
C’è un trucco a cui io ricorro di tanto in tanto per testare la forza di un titolo: provo a dirlo in giro, vedo che reazione suscita, poi lascio che passi un po’ di tempo e vedo se lo ricordano, se ha lasciato qualcosa dentro di loro. Quando non succede, si cambia.
Ci vuole coraggio, ma non c’è altro modo.

Chi dà il titolo a un libro?

Il titolo: vexata quaestio tra autore e editore. A chi spetta il diritto di “chiamare per nome” un libro? A chi ha scritto un testo o a chi ha contribuito a trasformare quel testo in un libro (ossia testo inserito in una dinamica tra lo scrivente e un pubblico)?

Il perché di questo dilemma è chiaro: per l’autore il titolo di un libro spesso è poco meno che il nome dato a un figlio. Si tratta dell’appellativo con il quale il frutto di mille fatiche, aspirazioni, timori e ripensamenti dovrebbe muovere i primi passi nel mondo ignoto dei lettori, riverberando se possibile in poche parole (a volte una sola) l’intera gamma di emozioni, idee, suggestioni che lo scrittore ha cercato di riversare nelle sue pagine.
Per l’editore, il titolo è invece (assieme all’immagine di copertina e i testi di bandella) una delle opportunità di instaurare un primo fruttuoso contatto tra l’autore del quale ha intuito il talento e il pubblico che per lui o lei ha immaginato.
È proprio in questo dilemma che si esplica con chiarezza il delicato ruolo di mediazione svolto dall’editore, mediazione in verità a volte necessaria, a volte no (vi sono titoli che nascono editorialmente perfetti nella mente dello scrittore).
Il compito è delicato e comporta trovare un punto di risoluzione che aiuti l’autore a uscire, quando è necessario, dall’impasse che si può creare tra comprensibili ansie personali e il desiderio (che ogni scrittore alberga dentro di sé) che il proprio testo si ponga, fin dal titolo, in dialogo fruttuoso con il mondo.
In questa giusta aspirazione può infatti inserirsi a volte, in particolar modo tra gli esordienti (ma non solo) una sorta di affettuosa tirannia esercitata sullo scrittore dal suo “lettore implicito”: quel pubblico immaginario cioè, fatto di lettori inevitabilmente assai simili all’autore, e che quindi vibra alle sue medesime suggestioni, reagisce ai medesimi temi, ne possiede i medesimi gusti e a volte persino i ricordi. Ed è proprio a questa trappola che un buon titolo (magari grazie a un buon editore) può strappare un testo e con lui il suo autore.
Certo, un titolo non dovrebbe creare in alcun modo una promessa non mantenibile, lasciando intuire una storia che non c’è, pena la rottura di un patto di fiducia delicato e importante tra autore e lettore.
Ma a volte basta poco per creare una sospensione che intrighi senza “svendere”, incuriosisca senza involgarire, catturi senza ingannare. Questione di millimetri, a volte.
Un esempio per tutti? Gita al faro di Virginia Woolf. Nel titolo (e nella mente) dell’autrice non c’è mai stata alcuna gita. To the Lighthouse era, ed è, il titolo di quella grande opera. Ma quanta aspettativa, invece in quella piccola parola, quanta capacità evocativa di un mondo. E quanti lettori si sono incamminati, incuriositi e fiduciosi, in quella gita, scoprendo fin dai primi passi uno dei pilastri della narrativa britannica di tutti i tempi.
Recenti, filologiche edizioni hanno restituito il titolo originario, facendo tornare quel capolavoro, semplicemente, Al faro. Eppure la sensazione che quel “tradimento” sia stato felice, quasi necessario, inevitabilmente resta. In fondo si trattava del tradimento di un bravo editore, innamorato del testo che stava per pubblicare al punto di mentire un po’, ma solo un po’, nel presentarlo.

Due titoli di libri particolarmente azzeccati

La scelta del titolo è faccenda delicata e certamente opinabile.

Ma anche in questo caso ci sono delle linee-guida.
Nell’ambito della letteratura d’avventura dove la copertina già connota parecchio il testo geograficamente, quello che serve è un titolo che stupisca, suggerisca senza descrivere, colpisca l’attenzione quasi con effetto straniante.
Un esempio che mi sembra particolarmente adatto è Malato di montagna.
Il libro racconta la passione e le imprese di Hans Kammerlander, notissimo alpinista. L’ultima cosa che assoceremmo ad uno sportivo dell’estremo è il concetto di malattia ed è proprio per questo che non si può non notare un titolo di questo tipo. Ci spinge a domandarci perché, a cosa si riferisce il termine malattia e ci porta a prendere in mano il volume per saperne di più.
Un altro esempio è Danzare sulla corda di Kurt Diemberger, altro noto alpinista. La danza e la montagna non sono facilmente associabili. Piuttosto, quando si parla di corda, si pensa all’espressione “tenere qualcuno sulla corda” ovvero non permettergli di rilassarsi. L’immagine di danzare sulla corda dà allo stesso tempo un senso di leggerezza ma anche di precarietà e pericolo. Tutti elementi che convergono a fare di questo un titolo che attira l’attenzione.
Ed è proprio questo che vogliamo ottenere! 🙂

Il quiz di Vladimir Nabokov per scoprire il segreto del bravo lettore

Vladimir Nabokov, l’autore di Lolita, oltre che un grande scrittore è stato anche uno straordinario maestro di letteratura. Sapeva anche divertirsi, e divertire i suoi studenti. All’inizio delle sue Lezioni di letteratura (che purtroppo trovate solo in biblioteca e di seconda mano su internet), racconta di essere finito in un remoto college della provincia americana, dove si inventò un quiz per tracciare l’identikit del bravo lettore. Stilò un elenco con dieci definizioni, chiedendo ai suoi allievi di sceglierne al massimo quattro:
«Un buon  lettore dovrebbe:
1. appartenere a un club del libro (o, aggiungiamo nel 2013, essere iscritto a un social network che parla di libri);
2. identificarsi con l’eroe o con l’eroina;
3. concentrarsi sull’aspetto socioeconomico (e su quello storico);
4. preferire una storia con azioni e dialoghi a una che non ne ha;
5. aver visto il film tratto dal libro;
6. essere un autore in erba (che magari partecipa a IoScrittore…);
7. avere immaginazione;
8. avere memoria;
9. avere un dizionario;
10. avere un certo senso artistico.»
Possiamo inventarci altre caratteristiche del nostro lettore ideale, e possiamo dare le nostre risposte al quiz. Anzi, questo blog è a disposizione per le vostre integrazioni e per le vostre risposte.
Molto probabilmente  – anche se siete dispettosi – arriverete alla stessa conclusione a cui arrivarono, diversi decenni fa, Vladimir Nabokov e i suoi studenti… e che vi racconterò tra un paio di giorni.

Sette regole per trovare il titolo a un romanzo

1) Cercate il vostro titolo nel vostro libro e, soprattutto, fatelo cercare ad altri. Un lettore fidato leggendo il vostro romanzo potrebbe trovarvi dentro, nascosto in qualche frase, il titolo perfetto che voi autori, totalmente immersi nell’opera, non sareste mai riusciti a individuare.

2) Cercate il vostro titolo nei libri che leggete: Che tu sia per me il coltello, titolo di un bel romanzo epistolare di David Grossman, è tratto da una lettera di Franz Kafka a Milena Jesenská: «E forse non è vero amore se dico che tu mi sei la cosa più cara; amore è il fatto che tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso».

3) Cercate il vostro titolo tra i versi dei poeti: spesso ci sono versi che isolati possono diventare dei titoli perfetti, e il primo esempio che mi viene in mente è un recente libro di Benedetta Tobagi il cui titolo, Come mi batte forte il tuo cuore, è l’ultimo verso di Ogni caso, una poesia di Wislawa Szymborska (e le poesie della Szymborska sono piene di possibili titoli).

4) Ricordatevi sempre che non dipende certamente dalla bellezza del titolo se il vostro manoscritto verrà pubblicato o meno da una casa editrice. In un manoscritto il titolo conta ben poco, anche perché spesso i titoli definitivi vengono scelti dagli editori, naturalmente con l’accordo dell’autore.

5) Non ci sono regole per il titolo giusto. Se fate un giro in libreria, potrebbe sembrarvi che ci siano delle regole perché la maggior parte dei libri che vedete esposti le rispettano. Ma si tratta di un’illusione, perché qualora ritornaste due anni dopo in quella stessa libreria vi trovereste altre regole, a volte addirittura opposte a quelle riscontrate nella visita precedente. Le regole sono quindi molto effimere e l’errore maggiore sarebbe scegliere il titolo con la speranza di accodarsi a una moda, per poi magari vedere il proprio libro uscire in libreria quando quella moda è già passata ed è considerata vecchia.

6) Anche per il titolo vale però la regola generale che si è già enunciata a proposito dell’incipit: non deve ingannare il lettore. Racconta Umberto Eco nelle Postille a Il nome della rosa: «Il mio romanzo aveva un altro titolo di lavoro, che era l’Abbazia del delitto. L’ho scartato perché fissa l’attenzione del lettore sulla sola trama poliziesca e poteva illecitamente indurre sfortunati acquirenti, in caccia di storie tutte azione, a buttarsi su un libro che li avrebbe delusi».

7) Tentate di non pensare al titolo fin quando non avete finito il romanzo e se avete già un titolo in testa non fate l’errore di affezionarvici troppo. Nel 1952, venne pubblicato in Italia un libro uscito l’anno prima negli Stati Uniti con un titolo intraducibile: The Catcher in the Rye. La traduzione si intitolava Vita da uomo, e vendette pochissime copie. Nel 1961 lo stesso libro venne ripubblicato da un altro editore e stavolta con enorme successo, il titolo della nuova traduzione era… Il giovane Holden. Ed è da mezzo secolo che molti lettori italiani identificano quel libro che hanno molto amato con quel titolo, come se fosse l’unico possibile. Questo per dire che fareste un errore a identificare a tutti i costi il vostro manoscritto con il primo titolo che gli avete dato. Anche perché, come si è già detto, è molto probabile che quel titolo cambi prima della pubblicazione. L’idea che un libro che abbiamo amato possa avere solo quel titolo lì, quello che avevamo in mente quando l’abbiamo scritto o letto, è solo un’illusione. Per ogni libro ci sono tanti, e diversi, titoli perfetti.

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Come nasce un best seller

Quelli che dicono che non ci sono certezze in quel gioco d’azzardo che è l’editoria hanno quasi ragione. In ultima analisi il successo di un romanzo dipende da quella forza mistica che si chiama passaparola. (Martin Arnold, «The New York Times», 11 aprile 2002).  

Nel nostro Paese circa tre quarti dei titoli pubblicati ogni anno vendono, nei normali canali, meno di tre copie. E sono poche decine i titoli che in un anno vendono più di 50.000 copie, la soglia oltre la quale un libro da noi diventa un best seller (infatti a volte vanno in classifica libri tirati in poche migliaia di copie).
 
L’editoria conosce da sempre il fenomeno, ma il primo best seller moderno può essere considerato Via col vento di Margaret Mitchell. L’autrice ottenne un anticipo di meno di 500 dollari, il 10% di utile sulle prime 10.000 copie vendute e il 15% sul resto; la Mitchell e il suo agente si auguravano, senza sperarci troppo, che l’editore riuscisse a vendere almeno 500 copie: invece nel 1936 fu il primo libro a vendere più di un milione di copie in un solo anno (un secolo prima, La capanna dello zio Tom si era fermato a 300.000). 

In Italia i primi libri a superare in tempi brevi le 100.000 copie sono stati Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel 1958, La ragazza di Bube di Carlo Cassola nel 1960 e Il giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani nel 1962. Per superare il milione di copie, è stato necessario attendere un giornalista-scrittore come Oriana Fallaci, con Lettera a un bambino mai nato (1975). L’anno successivo fu la volta del «best seller alternativo» Porci con le ali scritto da Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera, subito sequestrato e dissequestrato dalla magistratura. Il prototipo di quello che Vittorio Spinazzola definisce «best seller di qualità» è Il nome della rosa di Umberto Eco, uscito nel 1980 con una prima tiratura di 80.000 copie e venduto nel giro di pochi anni in milioni di esemplari nel mondo intero. 

Si potrebbero fare numerosi altri esempi, citando libri molto diversi da questi che però hanno un elemento in comune: l’imprevedibilità del loro successo. Molti best seller e long seller erano stati in precedenza rifiutati da altri editori, e quasi tutti al momento dell’uscita non venivano considerati tali. Molto spesso hanno saputo cogliere e anticipare stati d’animo e bisogni latenti (o nuovi), che nessun direttore marketing poteva prevedere e programmare. 

Il titolo perfetto per un romanzo

Sulla questione dei titoli si potrebbe tenere un simposio, perché è un po’ come cercare l’isola del tesoro o svelare un simbolo perduto. Ma allo stesso tempo non è certo qualcosa su cui si possa attendere un messaggio dagli spiriti 🙂 Al contrario, va scelto a sangue freddo e con una certa lucidità.

In questo, la casa editrice affianca l’autore svolgendo il ruolo di un bravo suggeritore.

Il pericolo senza nome, nella scelta di un titolo, è forse stare troppo aderenti al romanzo stesso, giacché il titolo dev’essere, nella sua brevità, come un romanzo. Deve mettere le carte in tavola, altrimenti è troppo facile, ma allo stesso tempo deve gettare un po’ di polvere negli occhi.

Nel caso di un thriller, il titolo deve in qualche modo solleticare i miei luoghi oscuri. Nella sua sintesi deve rappresentare un macabro quiz, un appuntamento con la paura. Deve aprire un sipario.

Deve provocarmi una specie di perdita di fiato, come una rivelazione mesmerica.

Deve saper convincere l’uomo della folla, ma anche il più fine intenditore.

Deve far pieno sfruttamento del potere delle parole, senza essere una mistificazione.

E deve avere un cuore rivelatore, che mi faccia iniziare la lettura così che giunto alla fine io sia spinto ad esclamare: «Sei tu il colpevole!».

Come trovare il titolo perfetto

Non so a voi, però a me piace molto definire qualcosa.

E poi magari buttare all’aria – da sola o insieme con altri – quella definizione, per trovarne un’altra, più precisa o più efficace o più evocativa. Così, se mi trovo di fronte a un romanzo thriller/mystery/horror (o a un romanzo che combina questi elementi), faccio proprio questo percorso.

 

All’inizio, si pensa che sia sufficiente mettere nel titolo qualche parola «forte» – delitto, assassino, cadavere, morte – e talvolta ci si ferma lì: ci si sono fermati, per esempio, Edgar Allan Poe (I delitti della rue Morgue), Agatha Christie (Assassinio sull’Orient-Express), Robert Louis Stevenson (Il trafugatore di salme) e Patricia Cornwell (Causa di morte).
Ma perché poi non provare a estrarre (in senso figurato!) il vero cuore del romanzo, quello che lo rende, ovvio, un nuovo figlio del genere, ma anche un figlio davvero nuovo, diverso da tutti gli altri?
Provateci, fatelo diventare un gioco: cancellate il titolo che gli avete dato, fate leggere il romanzo a vari amici e poi chiedete loro come lo intitolerebbero (sì, lo so, è anche un modo un po’ subdolo per capire se l’hanno letto veramente); elencate le principali caratteristiche dei vostri personaggi, i luoghi in cui si muovono, le loro azioni più significative e poi provate a collegarle o a fare libere associazioni; lasciatevi ispirare da una frase «classica» (presa dalla Bibbia, da una canzone, da un aforisma).
Così facendo, vi troverete in compagnia per esempio di Andrea Camilleri (La forma dell’acqua, La gita a Tindari), di Fred Vargas (L’uomo dei cerchi azzurri), di Patricia Highsmith (Il talento di Mr Ripley), di Umberto Eco (sapevate che Il nome della rosa in origine s’intitolava L’abbazia del delitto?), di Mickey Spillane (La vendetta è mia).
Basta che non capiti a voi quello che, lo confesso, un paio di volte è capitato a me. Trovare il titolo assolutamente perfetto… quando il romanzo era già in libreria!

Cinque cose che forse non sapete sul titolo

Ah, già, il titolo

Sarà banale, ma è anche innegabile che un buon titolo ben disponga, e talvolta possa anche conquistare all’istante – non ho difficoltà ad ammettere di aver acquistato non pochi libri per il titolo, per il meccanismo di identificazione che questi titoli generavano, per la concisa verità che esponevano, per la promessa che contenevano.
Ben più complicato e discutibile è cercare di dare un contenuto a quell’aggettivo, «buono», perché ogni lettore, da quello professionale, a quello onnivoro, a quello monotematico, è condizionato dai suoi gusti, dalle letture precedenti, dall’umore e dai desideri del momento.
Con cautela e senza pretese di assolutezza, tento comunque alcune considerazioni, tra le tante possibili, lasciando da parte le questioni riguardanti generi narrativi specifici (per intenderci, è assai improbabile che un romanzo fantasy si intitolerà mai La solitudine dei numeri primi).
1. Al momento, ma le cose stanno cambiando, il titolo di un libro è sempre accompagnato da un nome d’autore, da un marchio editoriale e da una copertina. Un buon titolo parla anche da solo, stampato su un foglio bianco, è compiuto in sé e al tempo stesso apre le porte all’immaginazione, lascia intuire la storia che preme dietro di lui. All’altro capo di questo ragionamento, è utile tenere conto che quasi mai un libro, e quindi un titolo, si presenta da solo. Si confronta sempre con altri titoli, gemelli, fratelli, parenti, tutti però nemici nel tentativo di conquistare l’attenzione. Raffigurarsi il proprio titolo sul banco di una libreria è sempre un valido esercizio.
2. Il titolo può essere usato anche come una lente che ingrandisce il particolare e restringe l’angolo di visuale. Cosa c’è ad esempio di più ampio, e generico, di La strada? Basta un passo avanti, e La strada dei ricordi è già un’indicazione più precisa. Con La strada polverosa dei ricordi la definizione è ancora maggiore, e soprattutto la promessa che viene fatta al lettore. A volte persino la minaccia: La strada polverosa dei tuoi ricordi?
3. Talvolta il titolo è già nel libro. È un suo personaggio, un luogo, una battuta di dialogo, basta soltanto tirarlo fuori.
4. Altra banalità: i titoli sono tutt’intorno a noi, ovunque vi siano parole. Esistono le mode, anche nei titoli, e bisogna conoscerle; un buon titolo probabilmente è già stato usato, e ci sono gli strumenti a disposizione di chiunque per verificarlo; caratteristica principale del titolo di un romanzo è far pensare a qualcosa, confrontarsi con altri su questo «qualcosa» non è mai inutile.
5. L’ispirazione può arrivare da qualsiasi parte. Certo ci sono le canzoni e ci sono i film (non tali e quali), c’è Shakespeare, c’è la frase di un romanzo del Settecento, c’è la Bibbia. Ma c’è anche La settimana enigmistica, ad esempio. Se do un’occhiata veloce alla prima pagina dell’ultimo numero ne ricavo: Un’intricata e spinosa faccenda (scontato), I sassolini d’oro (una fiaba, già sentito), Di buon umore, contento (curioso, difficile), Il sottoscritto (ambizioso), In mezzo al sentiero (anche questo già sentito), Un difetto di poco conto (interessante).
Mi sono dilungato senza essermi avvicinato di un passo al cuore della questione, sulla quale, volendo, si potrebbero peraltro fare discorsi di ben altra raffinatezza. Chiudo con un’ultima considerazione che, almeno per me, è confortante: da quando esistono i libri esistono anche i buoni titoli, la sorgente non si è mai esaurita, non vedo perché dovrebbe esaurirsi proprio adesso.