Sherlock Holmes: storia ed evoluzione del celebre investigatore

Se ci venisse chiesto di immaginarci un detective, probabilmente apparirebbe nella nostra mente un uomo con un lungo cappotto, una pipa, un insolito cappello e una lente d’ingrandimento. E se ci venisse domandato il nome di quell’uomo, non esiteremmo a rispondere: Sherlock Holmes, il detective londinese.

Nato dalla penna di Sir Arthur Conan Doyle (1859-1930), Sherlock Holmes è il personaggio che più di tutti ha contribuito a formare nella mente dei lettori del XXI secolo (ma non solo) il prototipo dell’investigatore. A partire dalla sua prima apparizione, nel romanzo del 1887 Uno studio in rosso, la sua popolarità non ha fatto che crescere, anche grazie ai successivi contributi di letteratura, teatro e cinema, che hanno reso il detective di Baker Street quello che conosciamo oggi.

Quando parliamo di Sherlock Holmes, quindi, ci riferiamo a un vero e proprio fenomeno culturale, che influenza il nostro presente e il nostro modo di pensare al genere giallo.

Ripercorriamo dunque la nascita e l’evoluzione di questo personaggio, le sue caratteristiche più iconiche e le sue avventure, oltre che gli innumerevoli adattamenti che lo vedono protagonista.

Chi è Sherlock Holmes?

Sherlock Holmes è un consulente investigativo, cioè un detective privato che si occupa di risolvere i casi di persone che necessitano delle sue deduzioni: sparizioni, morti inspiegabili, furti, assassinii e molto altro. Non accade però di rado che Holmes si interessi ad alcuni casi su richiesta degli investigatori di Scotland Yard, districando misteri apparentemente irrisolvibili grazie alle sue incredibili capacità. In questo senso, il nome più noto ai lettori è quello dell’ispettore Lestrade, le cui abilità investigative, però, non attirano molto la stima di Sherlock.

Il detective vive a Londra, al 221B di Baker Street (un numero civico che all’epoca non esisteva nemmeno), in un appartamento che inizialmente condivide con il dottor John Watson, medico dell’esercito britannico rimasto ferito nella guerra in Afghanistan del 1880. È proprio Watson, attento osservatore dei ragionamenti e dei comportamenti dell’amico, a raccontare in prima persona gran parte delle loro avventure.

Sherlock Holmes Museum Baker street “The Sherlock Holmes Museum”, aperto nel 1990, sorge su Baker Street. Anche se riporta il civico 221b, il museo si trova in realtà al numero 239

L’aspetto fisico di Holmes viene descritto in diverse occasioni, facendo riferimento alla sua agilità e forza, che lo rendono anche un eccellente pugile e spadaccino. In particolare, in Uno studio in rosso leggiamo: “Il suo sguardo era acuto e penetrante; e il naso sottile aquilino conferiva alla sua espressione un’aria vigile e decisa. Il mento era prominente e squadrato, tipico dell’uomo d’azione”. Nonostante ciò, le sue mani, “invariabilmente macchiate d’inchiostro e di scoloriture provocate dagli acidi, possedevano un tocco straordinariamente delicato”.

Le conoscenze di Sherlock Holmes sono quasi completamente rivolte al suo lavoro: è un esperto di chimica, di cui si serve per esperimenti e analisi dei materiali, e possiede buone conoscenze di anatomia e di biologia. Inoltre, ha una fitta rete di informatori che gli permette di rimanere sempre aggiornato su ciò che accade nel mondo criminale londinese. D’altra parte, però, a volte risulta meno aggiornato su vari aspetti della vita sociale e politica, e non conosce granché l’astronomia e la fisica.

Suona il violino, e, come gran parte degli uomini della sua epoca, fuma la pipa. È invece più insolito ai nostri occhi (ma sicuramente meno a quelli di un lettore di fine ‘800) il suo uso di morfina e cocaina, che utilizza per superare la noia e l’inattività tra un caso e l’altro.

Un capitolo a parte servirebbe per descrivere le straordinarie capacità deduttive di Sherlock Holmes, e il suo modo di comprendere svariate informazioni solo osservando attentamente la realtà, alla ricerca di dettagli nascosti agli occhi degli altri: una macchia su una mano, un rammendo su un cappello, l’impronta di un piede. Uno dei pochi personaggi a competere con le sue abilità (anche se troppo pigro per metterle davvero in pratica) è suo fratello maggiore, Mycroft Holmes, importante funzionario del governo.

La mente di Sherlock è analitica e rigorosa: è molto nota la frase in cui afferma che “una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità”. Il detective segue la logica e non si lascia sviare dalle emozioni, ma non per questo non possiede dei principi morali. Spesso infatti prende la decisione di non denunciare un crimine commesso da chi considera nel giusto, e la sua continua ricerca della verità lo porta a difendere fino alla fine chi reputa innocente.

Al contrario di Watson, sposato (probabilmente più di una volta) e molto attento al genere femminile, Holmes non è interessato alle relazioni. L’unica donna a catturare la sua ammirazione (oltre a essere l’unica ad averlo battuto) è Irene Adler, apparsa una sola volta nel racconto Uno scandalo in Boemia, ma in grado di lasciare un segno nella storia del personaggio: “Per Sherlock Holmes ella è sempre la donna. Raramente l’ho sentito accennare a lei in un altro modo…”.

Un altro iconico rivale di Holmes è certamente lo spietato professor Moriarty, “il Napoleone del crimine”, subdolo orchestratore di centinaia di delitti, al centro di un’intricata rete criminale che controlla da lontano.

Passiamo ora a osservare più da vicino l’evoluzione del personaggio attraverso le sue numerose investigazioni.

 Dalle origini al caso letterario

Arthur Conan Doyle fa nascere la figura di Sherlock Holmes nel 1887, con il già citato Uno studio in rosso, il primo di quattro romanzi che vedono protagonisti il detective londinese e il medico John Watson.

Con le sue opere Doyle riprende il genere del giallo deduttivo, inaugurato da Edgar Allan Poe con I delitti della rue Morgue. Diventa così uno dei fondatori del genere, contribuendo alla definizione di alcuni dei meccanismi usati ancora oggi dagli scrittori di libri gialli.

Sherlock Holmes Uno studio in rosso

Il successo delle investigazioni di Sherlock Holmes crebbe nel corso degli anni, a partire dal secondo romanzo Il segno dei quattro (1890) e a seguire con le raccolte di racconti, Le avventure di Sherlock Holmes (1892) e Le memorie di Sherlock Holmes (1894), apparsi sulla rivista The Strand Magazine. È proprio grazie alle illustrazioni che appaiono sulla rivista, a opera del disegnatore Sidney Paget, che si afferma l’uso del cappello da caccia deerstalker (mai menzionato nelle storie) per rappresentare il detective: una scelta che arriva fino ai giorni nostri.

Nelle intenzioni di Doyle, il racconto che chiude la raccolta del 1894, L’ultima avventura (in originale The final problem) avrebbe dovuto essere davvero l’ultima avventura del celebre investigatore, che nella lotta contro il famigerato professor Moriarty sarebbe dovuto morire, precipitando assieme a lui in un burrone.

Il rapporto tra Sherlock Holmes e il suo creatore fu conflittuale e ambivalente: Doyle avrebbe preferito dedicarsi ad altri generi, come quello del fantastico, dell’avventura e dell’orrore, e la decisione di uccidere il detective fu legata alla volontà di liberare la mente dalla sua presenza ingombrante.

Ma Doyle non aveva previsto la reazione dei lettori, che fu immediata e intensa: Sherlock Holmes era ormai divenuto un caso letterario, e il pubblico si ribellò alla sua morte, rivolgendo la sua indignazione contro The Strand Magazine e contro lo stesso autore. Osserviamo così quanto il personaggio avesse guadagnato sempre più influenza, diventando un vero e proprio “fenomeno pop”.

Facciamo allora un salto avanti fino al 1901, anno in cui Doyle, cedendo alle pressioni di pubblico ed editore, pubblicò a puntate Il mastino dei Baskerville, il terzo romanzo sul detective di Baker Street, ambientato prima della sua morte, in una brughiera nebbiosa attraversata dalla maledizione di un terribile mastino. A questo libro seguirono i racconti della raccolta Il ritorno di Sherlock Holmes (1905), che segnano l’effettivo “ritorno in vita” di Holmes, il quale spiega di aver finto la sua morte e di essere pronto a tornare in attività.

La valle della paura (1915), l’ultimo romanzo di Sherlock Holmes, assume toni più di tesi e avvincenti, mentre nella raccolta L’ultimo saluto (1917) veniamo a sapere che il detective si è ritirato in pensione fuori città.

L’effettiva ultima pubblicazione riguardante l’investigatore inglese risale al 1927, con Il taccuino di Sherlock Holmes: qui, eccezionalmente, due racconti sono narrati dal punto di vista dello stesso Holmes, che si congeda così dal lettore, dopo 40 anni esatti.

Questa però non è che una piccola parte della sua storia. Col passare degli anni, infatti, le generazioni successive hanno dimostrato il loro amore per il detective londinese tramite citazioni, omaggi, rivisitazioni e adattamenti, che hanno arricchito di dettagli la sua personalità e il suo mondo.

 Sherlock Holmes nella letteratura

Gli scritti apocrifi realizzati dopo la morte di Doyle sono innumerevoli, soprattutto in seguito allo scadere dei diritti d’autore. Questi testi approfondiscono periodi della vita di Holmes non trattati dall’autore, oppure recuperano la sua storia in modo innovativo e inedito. Sherlock Holmes è stato ripreso e omaggiato da molti autori successivi a Doyle, che dalle sue avventure hanno tratto ispirazione per costruire nuove storie intriganti.

Esempio emblematico quello di Umberto Eco, che nel suo celebre romanzo Il nome della rosa (Bompiani, 1980) si ispira a Holmes per tratteggiare il personaggio di Guglielmo da Baskerville: un erudito frate francescano, che con la sua origine rimanda chiaramente al romanzo di Doyle Il mastino dei Baskerville, e che come il detective di Baker Street possiede una mente rigorosa e brillante, adatta alle investigazioni.

Il nome della rosa

Parlando ancora di grandi nomi della letteratura contemporanea, nel 1999 Stephen King rievoca la figura di Sherlock in uno dei racconti della sua raccolta Incubi e deliri (Sperling & Kupfer, traduzione di Tullio Dobner), dove il dottor Watson ricorda l’unica occasione in cui è riuscito a battere Holmes nella soluzione di un caso.

Le vicende del giovane Sherlock sono trattate dallo scrittore e sceneggiatore canadese Shane Peacock, che dal 2007 ha creato una serie di romanzi sul giovane Sherlock Holmes, pubblicati in Italia da Feltrinelli.

Per concludere questa breve panoramica sul personaggio di Holmes nella letteratura, passiamo alla serie di Enola Holmes, di Nancy Springer, incentrata sulle vicende della sorella minore di Sherlock e Mycroft, Enola. Questo  personaggio, non presente nei racconti e romanzi originali, è protagonista di sei libri (in Italia pubblicati da DeAgostini) e di due adattamenti cinematografici per Netflix, rispettivamente usciti nel 2020 e nel 2022.

Enola Holmes

Sherlock Holmes: film, serie tv e altri adattamenti

Sherlock Holmes è stato uno dei personaggi letterari più celebrati dalla settima arte, ma la sua fortuna comincia ancora prima, sul palcoscenico, dato che già nel 1899 il detective è protagonista del dramma teatrale Sherlock Holmes, scritto in collaborazione con lo stesso Doyle e interpretato dall’attore e drammaturgo William Gillette.

È qui che probabilmente si fonda un altro dei tormentoni che lo riguardano: “Elementare, Watson!“, chi non l’ha mai sentito dire? Questa frase, in realtà, non viene mai pronunciata nei romanzi di Arthur Conan Doyle, ma si è gradualmente affermata nelle successive rappresentazioni cinematografiche (e quindi nella nostra cultura) come uno dei principali motti dell’investigatore.

Uno dei nomi più conosciuti per aver vestito i panni di Sherlock Holmes è quello di Basil Rathbone, che tra il 1939 e il 1946 realizza quattordici film, cristallizzando l’aspetto slanciato e longilineo di Holmes nella mente degli spettatori.

Il nome dell’attore britannico, inoltre, fa da ispirazione anche per il personaggio di Basil l’investigatopo (1986), il piccolo topo detective che nell’omonimo film Disney vive proprio a Baker Street, sotto la casa di Sherlock Holmes, e che come lui risolve misteri di ogni genere.

A oggi, l’adattamento cinematografico forse più conosciuto è quello diretto da Guy Ritchie nel 2009, con Robert Downey Jr. e Jude Law a interpretare Holmes e Watson. Questa pellicola, ambientata nel 1890, presenta un Holmes meno distaccato ma altrettanto geniale, oltre che una rivisitazione del personaggio di Irene Adler, avvenente e scaltra ladra con cui Holmes ha una relazione. Il film ha avuto anche un seguito, Sherlock Holmes – Gioco di ombre (2011) che presenta invece il personaggio del professor Moriarty.

Sherlock Holmes il film

Ma Holmes non è stato al centro dell’attenzione solo sul grande schermo: appare in diverse serie televisive, tra cui una per la BBC già nel 1964. Ed è sempre la BBC a realizzare nel 2010 la serie tv Sherlock, ambientata ai giorni nostri e liberamente tratta dai romanzi e racconti originali, con Benedict Cumberbatch e Martin Freeman. Questa serie prende spunto dagli intrecci costruiti da Doyle e crea uno Sherlock contemporaneo, eccentrico, geniale e asociale. L’episodio Uno studio in rosa, chiaramente ispirato a Uno studio in rosso, inaugura la prima di quattro stagioni.

Anche Elementary (2012-2019) porta Holmes nei tempi moderni, ma sposta le sue indagini a New York, dove il detective (interpretato da Jonny Lee Miller), appena uscito da una clinica di riabilitazione, collabora con la polizia. Lo affianca la sua terapista di riabilitazione, la chirurga Watson, interpretata da Lucy Liu.

Fonte: www.illibraio.it

Da “sui generis” a “post scriptum”: espressioni latine ancora usate in ambito letterario (e non solo)

Se è vero che ormai da secoli il latino non viene più parlato da un popolo specifico nella vita quotidiana, è anche vero, però, che in molte lingue romanze sopravvivono ancora tante espressioni provenienti dall’antica Roma.

Si tratta di un fenomeno che nel nostro Paese è particolarmente diffuso per motivi storici e geografici, e che ci porta a utilizzare con disinvoltura, e in più occasioni di quanto potremmo immaginare, i cosiddetti latinismi, ovvero parole o locuzioni ormai assimilate nella nostra parlata di ogni giorno.

Ecco una selezione di alcune fra le più frequenti che potremmo riscontrare in un contesto letterario, con qualche approfondimento e curiosità sulle loro sfumature di significato…

Ex aequo

Cominciamo da ex aequo, un’espressione latina di cui si sente spesso parlare nei concorsi letterari: quando due libri si trovano nella stessa posizione in classifica, infatti, è così che si esprime un concetto traducibile in italiano con a pari merito. Il sintagma è composto da ex (secondo) e aequo (un uguale), in cui si sottintende il termine livello.

Comune anche nel mondo dello sport, la locuzione è nota pure in ambito legale nella forma ex aequo et bono, che però qui significa secondo quanto è giusto ed equo, in riferimento a una sentenza emessa non rispettando la norma vigente, bensì appellandosi al cosiddetto giudizio secondo equità, che il giudice stabilisce in base alla sua coscienza.

Ad honorem

Proseguiamo con ad honorem, di cui troviamo traccia invece nel mondo accademico, se un personaggio pubblico riceve un titolo onorifico o una laurea senza aver prima portato a termine il relativo percorso di studi. Il sintagma è composto da ad (per) e honorem (l’onore), perché il conferimento si dà appunto a titolo d’onore.

Nei dizionari la locuzione è spesso considerata una gemella di honoris causa, anche se l’Accademia della Crusca evidenzia che “ad honorem indicherebbe un titolo conferito per onorare qualcuno indipendentemente dalle sue azioni, mentre il significato di honoris causa insisterebbe piuttosto sul ‘merito‘ attribuito a una persona grazie al suo lodevole operato in qualche attività”.

L'immagine mostra un uomo cercare espressioni sul dizionario

Sui generis

Passiamo ora a sui generis, a cui possiamo fare ricorso per descrivere un’opera letteraria insolita, atipica, che non riusciamo a etichettare usando una definizione già esistente. L’espressione latina è composta da sui (di suo) e generis (genere), e ci permette di esprimere (anche in altri contesti d’uso) l’originalità e la particolarità di un elemento del discorso.

In origine era legata solo ed esclusivamente alla filosofia medievale della Scolastica, che classificava gli oggetti a seconda del loro genere e della loro specie. Quando una specie non era infatti riconducibile a un determinato genere, apparteneva di conseguenza a un genere proprio (sui generis, appunto), che faceva capo solo a sé stesso.

Alter ego

Veniamo poi a alter ego, che in narratologia si riferisce a un personaggio di finzione creato con delle caratteristiche affini a quelle del suo autore. La locuzione è composta da alter (un altro) e ego (io), e può fare anche riferimento al doppio sé dei personaggi con un’identità segreta (come i supereroi), o che sono molto simili a un’altra figura della stessa storia (come il protagonista e il suo più caro amico).

Diverso è il discorso per l’ambito giuridico e storico (in cui l’alter ego è un individuo incaricato di alcune responsabilità da uno che occupa una posizione superiore alla sua) e per l’ambito psicologico, nel quale sono le persone con doppia personalità ad avere un alter ego – mentre nel Regno delle Due Sicilie alter ego non era altri che il titolo ufficiale dei luogotenenti.

Post scriptum

E chiudiamo con post scriptum (in genere abbreviato in P.s.), un’espressione diffusissima negli scambi epistolari e non solo, dal momento che ancora oggi introduce il testo scritto in calce alle email o nelle chat di messaggistica. Il sintagma è composto da post (dopo) e scriptum (lo scritto), ed è una formula che serve ad aggiungere una o due frasi conclusive dopo la firma del mittente.

In passato era un espediente importante per evitare di sprecare carta e tempo quando ci si dimenticava di raccontare un dettaglio in una lettera scritta a mano, oppure per mettere in evidenza un concetto che non si voleva far passare inosservato. Nei casi più estremi, può essere seguito da ulteriori postille quali P.s.s. (post super scriptum, cioè dopo quanto scritto sopra), P.p.s. (post post scriptum, ovvero dopo il poscritto) e così via…

Fonte: www.illibraio.it

Da una nuova, intensa voce una storia dimenticata sullo sfondo del sud Italia nel dopoguerra

Vi piacciono le piccole storie che si intersecano con la grande Storia?

È in libreria dal 24 aprile I fuoriposto di Cosimo Buccarella, un romanzo ispirato a storia dimenticata del sud Italia del dopoguerra e narrato con voce intensa e genuina. Siamo a Santa Maria al Bagno, in Puglia, nel 1946. Il mare brilla trasparente sotto sole, ma tutt’intorno è miseria nera, ereditata da generazioni e ingigantita dalla guerra. Tommaso, Umberto, Marcello e Giovanni sono quattro tredicenni, e della loro terra conoscono solo la campagna arsa, i rovi e le pinete tra cui scorrazzano per isolarsi dai grandi, luoghi in cui si rifugiano per fingere che la miseria e la fatica siano lontane come l’orizzonte che precipita nel mare. Ma quando Marcello trova, seminascosto nella boscaglia, il cadavere di un uomo, i quattro amici entrano in contatto con un mondo a loro ignoto, che li conduce proprio in riva al mare, dove gli inglesi hanno allestito un campo profughi per i sopravvissuti alla Shoah. Paradossalmente, ai ragazzi il campo sembra il paese di Bengodi, perché non solo il cibo non scarseggia, ma c’è persino un’infermeria. E Tommaso ha una sorella che sta morendo di tifo… Come si capisce da queste righe, è una lettura appassionante, capace di far sorridere e commuovere allo stesso tempo. Non a caso, per citare solo alcuni pareri di colleghe scrittrici, Valeria Parrella ha detto: «Una realtà storica sorprendente, dei protagonisti bellissimi» e Simona Vinci lo ha definito «Una bellissima storia, un vero e proprio romanzo d’avventura».

Abbiamo fatto alcune domande allo scrittore, per conoscere meglio la sua esperienza con il torneo.

 Come e perché hai deciso di partecipare a IoScrittore?

Conoscevo IoScrittore per avervi partecipato in precedenza, quando con Brave Persone ottenni la pubblicazione in ebook. Sapevo, quindi, che anche per il manoscritto de I fuoriposto avrei ottenuto, nella peggiore delle ipotesi, alcuni giudizi utili per migliorarlo. E nella migliore delle ipotesi, quella che poi si è verificata, il mio testo sarebbe arrivato sotto gli occhi di un editor di una casa editrice del Gruppo GEMS. Inoltre, ero conscio che per terminare un romanzo così lungo e complesso avevo bisogno di una scadenza, altrimenti me lo sarei rigirato tra le mani all’infinito. E quindi ho sfruttato le date utili alla partecipazione al torneo come vincoli per focalizzare e indirizzare il lavoro.

Lo consiglieresti a un aspirante scrittore?

Assolutamente sì. Come dicevo, ho imparato a considerare il torneo IoScrittore come un’occasione in ogni caso positiva, non fosse altro che per procurarsi una schiera di ‘beta readers’ agguerriti quanto basta da non dare facilmente giudizi lusinghieri. E questo significa che quando i giudizi lusinghieri arrivano, diventi cosciente di aver fatto davvero un buon lavoro, e questo ti dà una bella dose di autostima e fiducia, che da esordiente è sempre difficile provare.

In più, bisogna tenere presente che non sono molte le strade da percorrere per un esordiente una volta che ha in mano il dattiloscritto terminato. Le case editrici più importanti non accettano candidature spontanee, e quando le accettano è comunque difficile che le leggano; lo stesso ormai vale per gli agenti letterari, con i quali è sempre più difficile entrare in contatto; e la possibilità di cadere in qualche trappola a pagamento è sempre in agguato.

In questo panorama, un torneo gratuito che ti consente di far leggere il tuo testo e metterlo a disposizione degli editor di uno dei più grandi gruppi editoriali italiani, è un’opzione da tenere in seria considerazione.


Quali libri ti hanno ispirato durante la scrittura?

I fuoriposto ha una componente storica per la cui ricostruzione ho dovuto studiare moltissimi testi, avvicinandomi così a storie a cui diversamente non mi sarei approcciato. È il caso della trilogia Sword of Honour di Evelyn Waugh, e soprattutto del terzo romanzo di questa saga, Resa incondizionata. Ma il mio è anche un romanzo di formazione, e uno dei romanzi di formazione di cui sono più innamorato è Vite pericolose di bravi ragazzi di Chris Fuhrman, che mi ha letteralmente folgorato. 


Che cosa ci puoi dire della tua esperienza di lavoro con un editor?

Una battuta dice che gli scrittori agli esordi non fanno altro che invocare l’editing del proprio manoscritto, ma poi non sono d’accordo con niente di ciò che l’editor suggerisce loro. Per la mia esperienza posso dire, invece, che è molto bello trovare qualcuno che è in sintonia con te e con il tuo testo, nel senso che ci vede esattamente quello che ci vedi tu. È stato un piacere lavorare con Luisa, editor di Corbaccio, proprio perché avevamo la stessa idea di ciò che volevamo ottenere con questa storia, e senza discussioni né litigi, in modo molto fluido e naturale, abbiamo migliorato il testo insieme.

“Il cielo d’erba”: per amare occorre accettare non solo gli altri, ma anche noi stessi

Francesco e Viola sono innamorati. La loro è in apparenza una storia d’amore come tante altre: due giovani adulti della periferia romana, con una vita precaria e un futuro incerto, che si incontrano, si sposano, e imparano a volersi bene, a incastrarsi corpo e anima.

Francesco, sensibile e timido, Viola, energica e scostante. Ma questo amore chiederà loro una prova: Viola ha capito di essere dentro di sé un uomo e decide di iniziare il percorso della transizione di genere e cambia nome in Vittorio. Vuole che Francesco resti al suo fianco, che nulla cambi fra loro, perché ciò che ha dentro è lo stesso, è solo la forma esteriore a cambiare. Ma è davvero una strada, questa, che si può percorrere in due?

Il cielo d’erba (Longanesi) è il romanzo d’esordio del regista Gianfranco Vergoni. L’autore, perugino di nascita ma romano di adozione, prendendo spunto da una storia vera cui lui stesso ha assistito, racconta le difficoltà di Francesco, la cui unione con Viola, indiscussa sul piano del sentimento, vacilla a partire dalla progressiva ma definitiva trasformazione del corpo di lei.

Francesco fin dalle prime pagine conquista con la sua emotività goffa ma definita, con la sua identità densa di virtù e debolezze reali: né eroe né macchietta. La messa a fuoco, graduale ma intensa, della sua psicologia, delle sue insicurezze e anche delle sue contraddizioni (l’amore che prova per Viola, le difficoltà nell’accettare e nell’accogliere con lo stesso amore l’“avverarsi” di Vittorio, della sua identità maschile) è terreno fertile da cui prendono vita gli altri personaggi che abitano questo romanzo.

Intorno ai due protagonisti ruotano infatti amici, parenti e figure con cui l’autore arriva a comporre un vero e proprio campionario umano di ogni natura e genere, in cui emergono i piccoli e i grandi drammi di ciascuna esistenza, che compone il puzzle all’interno del quale ognuno di noi cerca di trovare un proprio spazio. Tutti i personaggi sono immersi negli ambienti pittoreschi e controversi della periferia romana, con i suoi bar, la sua parlata, i locali notturni, i mercatini.

A raccontare questa storia, in prima persona, è lo stesso Francesco, la cui voce restituisce un certo equilibrio fra intensità drammatica e ironia e permette di mantenere la percezione dell’autenticità con cui vengono restituiti gli stati d’animo dei protagonisti. È infatti proprio Francesco a mostrare un maggiore dissidio interiore, che, di conseguenza, lo porta a svolgere una sua personale evoluzione, diversa da quella di Viola, ma ugualmente importante.

«Frà, io so chi sono. L’ho sempre saputo.»

Le ultime parole che il cuore di Viola fa dire alla voce di Vittorio prima di dormire. Parole che la stanchezza fa emergere più morbide, eppure solide, scure, portanti come fondamenta di velluto nero che si allungano verso le buie profondità del pianeta.

«Non sto cambiando. Sto venendo alla luce.»

Allungo la mano verso l’abat-jour. È una luce che posso controllare. La notte spegne la stanza.

«Quello che sta affrontando il cambiamento sei tu»

La tematica della transizione di genere, attualissima, è affrontata dunque con una prospettiva narrativa originale, cioè quella dell’“altra parte”, di chi assiste al cambiamento.

Senza stereotipizzazioni di circostanza, Vergoni definisce con sensibilità ogni tassello emotivo e psicologico della vicenda, costruendo al contempo i personaggi e l’intreccio in maniera autentica e al stesso tempo leggera. La drammaticità e la serietà dell’argomento vengono infatti smorzate dal piglio autoironico del protagonista-narratore Francesco (che potrebbe sembrare, alla lontana, una sorta di Zeno Cosini dei giorni nostri) e da alcune leggere e intelligenti incursioni da commedia.

Una storia commovente, che riesce anche a divertire, ma che forse va oltre il semplice intrattenimento e assolve anche un compito più difficile: consegnare un messaggio, in quanto a essere promossa non è solo l’accettazione dell’altro, del diverso (ciò quella di Francesco verso Viola), ma soprattutto quella di se stessi: Viola impara ad abbracciare una volta per tutte la sua natura maschile mentre, in maniera più sottile e forse difficile, Francesco, riesce ad ascoltare le proprie emozioni e a comprendere che l’amore per gli altri non può e non deve portare a tradire, a ignorare la nostra identità e i nostri desideri, anche quando il mondo ci sembra al contrario e vediamo il cielo d’erba.

Di fronte a me, il mondo visto al contrario. È il punto di vista alternativo dal quale Viola mi ha insegnato a riconsiderare ogni certezza. I punti cardinali che si scambiano di posto, o piuttosto l’uno che si trasforma nell’altro, contrari solo in apparenza; ciascuno con dentro il proprio opposto. La femmina che si rivela maschio, il sole di mezzanotte, il nord che diventa sud, il sotto che finisce sopra, l’erba che spunta dal cielo. Il cielo come lo vedeva Viola, con gli occhi di Vittorio Il cielo d’erba.

Fonte: www.illibraio.it