30 kg di Simona Bravo

Parlo per chi si immedesima troppo in quel che legge: una lettura troppo
partecipe, in certi casi, implica una sofferenza anche fisica. Ma sono
soprattutto il disagio, il senso di impotenza e – a volte – l’autentico
terrore, le principali sensazioni che si sono impadronite di me quando
mi sono immerso nella lettura di quest’opera di Simona Bravo.

Il
tema di “30 kg” è quello dell’anoressia, una delle patologie più
contemporanee che possano affliggere i nostri giovani: insieme alla
bulimia, a parer mio, una delle sindromi che meglio esteriorizza lo
sgomento esistenziale, rendendolo appariscente e rappresentandolo in
maniera visibile ed evidente agli occhi di tutti. Per il potere
fortemente simbolico che questa “malattia” possiede: nel rapporto
problematico con il cibo, normalmente fonte di sostentamento, che
diviene uno strumento di autodistruzione e di ossessione. Se possibile,
ammesso che si possa instaurare una gerarchia nei mali sociali e
psicologici del nostro tempo, il “disturbo alimentare” è ancora più
devastante, e a volte irreversibile, della tossicodipendenza e
dell’alcolismo.

L’opera
di Simona è un accurato diario di una vicenda oscura, che rimane tale
anche a lettura ultimata. Perché “il male del vivere” rappresenta un
mistero per chi razionalmente crede di poter individuare la causa
scatenante di un’angoscia immanente, che si cronicizza e drammaticamente
attraversa le fasi ascendenti di un delirio che rasenta la follia.

La
causa almeno apparente del suo morbo, Simona la individua nella
mortificazione inflittale da un’insegnante: a quel momento l’autrice
riconduce il “timore per il prossimo.” Da quel momento
“penso che chiunque sia più brava di me, non ho fiducia in me stessa e nelle mie capacità.” E si instaura una pericolosa correlazione: “L’estrema
accuratezza con cui controllo il cibo diviene proporzionale al
rendimento scolastico: ho la convinzione che quanto più mi limito
nell’assumere calorie, tanto maggiore sarà l’impegno e il rigore che
dedicherò allo studio.”

Poi
è tutto un crescendo: di tappe dolorose e di esasperazione. La
maniacale attenzione per gli alimenti ingeriti, il rito della bilancia,
l’iperattivismo, l’assunzione di farmaci (diuretici, lassativi), i
sotterfugi  con i familiari e gli stratagemmi per evitare di assumere
cibo, i cedimenti del fisico, i reiterati ricoveri. Tutto avviene in
modo compulsivo:
“Il
binomio magrezza-studio diventa l’unico scopo della mia vita. Non mi
rendo conto che gli anni scorrono inesorabilmente veloci con i loro
eventi, mentre io vivo sempre più chiusa nella mia gabbia mentale,
prigione mentale che mi emargina da tutto e da tutti.”

Nel mio commento, voglio segnalare alcuni passaggi significativi di quest’opera shock (e uso volutamente questo termine).

Primo:
Simona dedica il suo scritto a suo padre. Perché il suo dramma
personale si interseca con la malattia dell’amato genitore, con tutte le
implicanze che questa intersezione comporta.

Secondo:
la “guarigione”, dopo vent’anni di sofferenze, viene descritta senza
trionfalismi, con una moderazione che essa stessa – a mio modesto parere
– conferma quanto sia importante non abbassare mai la guardia dinnanzi a
una malattia così insidiosa. Mi è piaciuta molto la citazione iniziale
di Seneca, uno stoico!, che allude alla profondità dell’animo umano e
alla soddisfazione che si trae dalle conquiste più “faticose”.

Terzo:
sapete qual è l’elemento narrativo che maggiormente mi ha colpito? La
totale assenza degli altri: per tutto il racconto, Simona è sola, con la
sua mania e le sue ossessioni; sembra viva in un deserto ove il
prossimo è totalmente assente. “Gli altri” ricompaiono soltanto nelle
ultime pagine. Nella “
riscoperta
voglia di valori semplici: la battuta con le colleghe, un brindisi con
le persone che non mi hanno mai abbandonato, ma che io, nella cecità
della malattia, non riuscivo più a vedere …”

Cara Simona, dopo questa constatazione, ti abbraccia …


Su i-Libri puoi leggere l’intervista di Bruno Elpis all’autrice Simona Bravo.

A che ora muori? di Simone Carabba

Simone Carabba, personalità multiforme, si occupa di recitazione e canto e, dal 2007, si cimenta nella scrittura di romanzi gialli tra cui l’ultimo, edito IoScrittore, dal titolo “A che ora muori?”.

“L’orologio aumenta di un minuto la sua corsa. 15.01. Tic toc, tic toc, tic toc. Battiti pesanti come macigni in discesa da un monte. Rintocchi profondi, con una eco grassa. Il pendolo oscilla ghigliottinando un altro minuto. Ne rimangono pochi. Forse uno. Un uomo aspetta. L’altro urla.”

 

Siamo nel mese di luglio, la città di Genova è intorpidita ed immobile a causa dell’afa estiva.

 

Durante una di queste giornate di caldo torrido, in questura, l’ispettore Ugo Marrassi riceve uno strano pacco contenente degli oggetti e una serie di numeri e, qualche minuto dopo, una telefonata che comunica il ritrovamento di un cadavere: è l’inizio di un mistero, della ricerca di una giusta combinazione di dati, di un enigma messo in atto da un omicida seriale che porrà a dura prova le capacità e i nervi (non sempre saldi) della squadra dell’ispettore.

 

S’intreccia così un gioco di cifre, orari e corse contro il tempo che, come si evince già dal titolo, è una costante all’interno del romanzo oltre che l’elemento unificante di tutta la narrazione. Più in fretta si muoverà la squadra, più in fretta si dissolverà il piano maniacale e folle del killer, più possibilità ci saranno per otto persone (tante quante il numero degli oggetti contenuti nel pacco misterioso) di rimanere in vita. Nel testo il tempo è una ricorrenza ossessiva che scandisce parallelamente il ritmo della narrazione e quello delle indagini.

 

Il gruppo di poliziotti è decisamente variegato a partire dallo stesso Ugo Marassi, uomo in apparenza “di ghiaccio” ammirato ed invidiato da  tutti i suoi subordinati, all’agente scelto Pasquale Pasquali, l’unico ad instaurare un rapporto con l’ispettore con cui, inoltre, si gioca, antagonisti a livello narrativo, il ruolo di protagonista; la vice sovrintendente Barbara Salvi, donna sensuale e carismatica e ancora l’agente Antonio Castroreale, il medico legale Domenico Menighetti…ciascuno con le sue peculiarità.

Interessante è che la narrazione, che utilizza quasi una tecnica da montaggio cinematografico, passa da un personaggio all’altro(anche se maggiormente giocata tra l’ispettore e l’agente scelto) e così tanto la vicenda quanto ciascuno dei personaggi  vengono inquadrati da più punti di vista, il che permette al lettore una panoramica a 360° di quello che sta avvenendo.

 

Qui, più che nella stesura della trama del romanzo, risiede l’abilità dell’autore: mentre i personaggi si passano il “testimone della narrazione”, l’autore sceglie ed usa per loro un linguaggio diverso che è immediatamente riconoscibile dal lettore. Anche se non viene quasi mai detto esplicitamente chi di loro stia parlando, il lettore non ha nessuna difficoltà a capirlo.

Il linguaggio di alcuni è colorato e colorito, quotidiano e ricco di inflessioni dialettali (soprattutto liguri, ma anche pugliesi), quello di altri è più serioso ed impostato.

Un romanzo veloce ed equilibrato, con dei personaggi arrabbiati e con delle descrizioni dettagliate di barbarie atroci a cui viene però mescolata una buona dose di humour e ironia.

 

“Bisognerebbe avere il cestino come il computer, per gettarci dentro un file che non ti piace. Poi basterebbe cliccare su «svuota cestino» e il gioco sarebbe fatto. Memoria cancellata. Il documento non esiste più. Io il cestino non ce l’ho. Però ho una rabbia tale in corpo che compromette il mio giudizio, il mio equilibrio.”


Puoi leggere l’articolo originale su i-Libri.

Nebbia sull’Arno di Orfeo Paci

Ho scomposto idealmente questo romanzo di Orfeo Paci in tre parti.
La prima parte realizza quello che spesso è un desiderio che ci blandisce. L’idea di poter tornare indietro nel tempo, riavvolgere le fasi della vita, ritrovarsi in un punto precedente e già vissuto, con la possibilità di cambiare qualcosa. Nelle proprie scelte o nelle proprie opportunità. Questa chance viene misteriosamente offerta a Rodolfo, una sera, mentre sta camminando lungo l’Arno avvolto dalle nebbie. Il protagonista si ritrova sbalzato nel tempo all’anno 1946. Nel proprio paese, a Limito, nella campagna toscana, Rodolfo incontra l’amato padre, intravede la storia d’amore tra il genitore e sua madre, si innamora – ricambiato – di Laura, donna dal passato drammatico, raggiunge il fratello maggiore Bruno che il padre ha affidato ai nonni, passando attraverso avventure che implicano falsificazione di documenti, scontri a fuoco con le forze dell’ordine e un incontro clandestino con il brigante “Maremmano”. Del resto, l’arrivo di Rodolfo a Limito nell’anno 1946 rappresenta un mistero: “La faccenda è sospetta, prima viene ucciso un uomo, poi arriva questo tizio, si stabilisce in casa sua e se la intende con la vedova.” La permanenza di Rodolfo nel passato si protrae fino alla disavventura nell’Ombrone in piena, ove il giovane sacrifica la propria vita … per salvare quella del padre.
In questo avvitamento esistenziale nel tempo, Rodolfo sperimenta sensazioni sconosciute: “Avvertì un calore antico, mai provato.”
A volte sostiene dialoghi oggi anacronistici: “E’ giusto che le donne votino, ma che vadano … in macchina e magari fumino e bevano come un uomo, questo no, ognuno deve stare dalla sua parte. Ci manca solo che vogliano i pantaloni, poi siamo a posto.” E incappa in situazioni paradossali: “Un uomo senza passato è come se non esistesse, e il suo (passato) si trovava nel futuro.” O surreali: “Essere lì con suo padre lo faceva diventare uno dei personaggi dei suoi racconti …”
Nella seconda parte, Rodolfo torna ai giorni nostri. L’esperienza diacronica che ha vissuto è vivida nella sua mente, ma lui stesso è incredulo e non sa spiegarsela. Bruno, che crede – forse più del diretto interessato – nell’esperienza retroattiva del fratello, tenta un’anamnesi e una ricostruzione dei fatti, ripercorrendo i luoghi e rintracciando i protagonisti di quello che ormai sembra un sogno intenso: “Ho verificato i tuoi ricordi: qualche domanda fingendo di rievocare il passato. Alle persone di una certa età piace parlare dei tempi andati, e quando cominciano non li fermi più.”
Questa ricerca, però, è infruttuosa e l’esperienza di Rodolfo sembra potersi spiegare con interpretazioni di tipo psicanalitico.
Ma la vita, come molti ben sanno, riserva sempre grandi sorprese. Nella terza parte del romanzo, la vicenda assume i toni de “La donna che visse due volte” (Vertigo) di Hitchcock, perché Rodolfo incontra nuovamente una persona del passato immaginato (o vissuto?) e rivive sentimenti già provati …
L’interpretazione della vicenda assume dunque un’altra sfumatura: “… bisognava ricorrere all’irrazionale. E qui la gamma diventava infinita …” Magari per scoprire che “l’amore fa attraversare gli oceani, il nostro ha superato il tempo.”
Un romanzo scorrevole e accattivante, che affronta temi cari all’uomo: sempre in bilico tra realtà, illusione e sogno.
Su i-Libri puoi leggere l’intervista all’autore Orfeo Paci: http://www.i-libri.com/nebbia-sullarno-di-orfeo-paci.html

La nostra Africa di Michelangelo Bartolo

Il corposo volume “La nostra Africa”, più di 400 pagine di viva testimonianza di lotta all’Aids, può esser letto in un soffio, in un gesto leggero; non esagero nel dire che può esser letto ridendo. Tutto è reso possibile grazie all’intelligenza dell’Autore che ne ha fatto sì qualcosa di lungo, ma anche di penetrante, di divertente, di mai banale.

Il libro ripercorre le tappe più significative dell’affermarsi del programma di cura DREAM (Drug Resourse Enhancement against Aids and Malnutrition) della Comunità di Sant’Egidio in collaborazione con le autorità sanitarie locali africane, ed è suddiviso in tre parti contestualizzate in via spazio-temporale: la prima, Mozambico (2001-2006); la seconda, Tanzania (2005-2010); la terza, Africania (2009-2011). I dati, le statistiche li lascio al lettore che potrà consultarne ogni più piccolo aspetto disseminato nel testo e racchiuso in una breve appendice finale.

Questa suddivisione strutturale organizza una lettura “a campi” e introduce il lettore passo passo nell’universo africano, un universo che già s’indovina sfidante, logorante sin dalle prime pagine. La narrazione è condotta con andamento progressivo e segue, com’è naturale che sia, il continuo miglioramento del DREAM che minuto per minuto, giorno per giorno, macina risultati positivi nel curare sempre più malati di Aids, nello strappare alle braccia della morte persone già “condannate” e rigettate da comunità locali ancora non in grado di accettare “il malato” in quanto essere umano.

Colpisce la forza con cui medici, infermieri, volontari a vario titolo si scontrano con una burocrazia che definire kafkiana non è fuori luogo, a tratti appare questo il lato più duro. Curare il malato è difficile, sembra dirci l’Autore, ma più difficile ancora è combattere non contro il nemico bensì contro l’amico, contro colui che potrebbe aiutarti, che avrebbe i mezzi e l’autorità per farlo.

Innumerevoli sono, a tal proposito, gli episodi che s’incontrano nel libro: dai surreali colloqui con chi dovrebbe sbloccare, dalla zona porto, un container di macchinari per la creazione di un laboratorio di Biologia Molecolare (siamo in Mozambico), agli incalcolabili ammiccamenti di funzionari che agiscono solo a suon di mazzette, di allowance, come qui vengono chiamate (siamo in tutto il continente).

L’Africa accoglie il lettore mostrandogli due volti. Il primo è quello lento, labirintico; è l’Africa dei funzionari pubblici, quella dove gli incontri ufficiali con autorità politico-amministrative durano ore e ore… ma sono solamente ore d’attesa. L’Autore è chiamato a sopportare interminabili preamboli, lunghissime ore aspettando il funzionario di turno che non arriva mai, e che quando arriva liquida ogni problematica con poche parole, precedute sempre da un “but” in grado di tagliare le gambe alla più tenace speranza. È questa l’Africa esasperante, quella che ti viene in contro da lontano, da distanze siderali.

«Con il tempo ho capito una cosa: chiunque [in Africa] può fare un’obiezione e fermare o rallentare la tua pratica, ma nessuno ha il vero potere di mandarla avanti. Nessuno, neanche il ministro, che ha un rispetto spropositato per il parere del più piccolo direttore locale.» (pag.370)

Queste parole fanno a pugni con l’altra Africa, quella che compare all’improvviso e ha, non può essere che così, i volti dei bambini (già, tipo quelli delle pubblicità in televisione) in grado di comunicare con un corpo, il loro, devastato sia dalla malattia sia dalla violenza. Sono mani che lasciano le loro impronte sui finestrini delle auto che scortano i bianchi, sono mani che chiedono solo quando capiscono che qualcuno può dare, sono mani che cercano un contatto, che hanno disimparato a giocare con gli adulti. Toccanti, a questo proposito, i molti ritratti che costellano le testimonianze del libro e che è inutile anticipare in questa sede, togliendo al lettore il gusto dell’imparare. Sì, dell’imparare dal gesto più banale, più spontaneo… dell’imparare dalla testimonianza di chi quest’universo l’ha combattuto e aiutato contemporaneamente.

Si diceva Mozambico, Tanzania, Africania. Quest’ultimo Paese è chiaramente luogo simbolico e concreto insieme, specchio di un’Africa tutta che non sta solo sulle cartine geo-politiche ma anche nell’esperienza del volontario, di colui che ha deciso di scrivere per testimoniare racchiudendo in un’ultima partizione dell’opera un’esperienza simbolica, in grado di “tirare le somme”, di snocciolare dati. Già dati, statistiche, cifre: un consiglio al lettore è quello di non cadere nel luogo comune del: “i numeri non trasmettono passione”. Bisogna leggere questi numeri, è necessario incamerarli facendone esperienza, perché s’impara anche da quelli, s’impara anche dal lato più freddo e meno passionale quando si parla di Africa e di programmi di cura.

Un libro che s’aggiunge a una letteratura già vasta, ma che conserva la forza dell’unicità e che in quest’ottica va studiato.

Chiudo con uno sguardo al tratto distintivo del libro, quello dell’ironia. All’inizio di queste righe scrivevo che si ride, nel leggere questo libro. Infatti ogni pagina, contrariamente a quanto si può pensare prima d’iniziare a leggere, è pervasa da un forte umorismo. Ogni colloquio è spia per nuove battute di spirito; ogni parola, ogni gesto generano una situazione linguistica spiazzante. Stupisce la cosa? No, non stupisce. O meglio, non stupisce il lettore intelligente in grado di capire che quest’ironia nasce per esorcizzare il Male (con la Maiuscola), nasce perché chi vuole aiutare l’Africa ha bisogno di rimanere lucido, di non lasciarsi distruggere a sua volta. Non stupisce, perché questa è l’ironia di chi ha sofferto e che solo chi ha sofferto può permettersi d’adottare.

Su i-libri puoi leggere l’intervista all’autore, Michelangelo Bartolo: http://www.i-libri.com/la-mia-africa-di-michelangelo-bartolo.html.