Bisogna correggere o no gli altri quando fanno errori grammaticali?

Se siete insegnanti o lavorate in una redazione, correggere errori grammaticali sarà il vostro pane quotidiano. Anche in diversi altri contesti, però, che siano lavorativi in senso lato o legati alla nostra sfera privata, ci può capitare di sentire qualcuno coniugare male un verbo, incespicare con uno spelling o piazzare male un accento tonico. Sarà il caso di farglielo notare?

Se non avete ancora maturato una risposta adatta a tutte le occasioni, è perché in realtà sarebbe impossibile stabilire a priori quando sia il caso o meno: la risoluzione di questo dilemma etico dipende da una serie di fattori, e correggere errori altrui può dare frutti stimolanti o rivelarsi causa di attriti.

Proviamo insieme a capire come scegliere di volta in volta l’azione più adeguata, prendendo spunto dai tre filtri di Socrate e partendo dal presupposto che nemmeno correggere errori è un atto giusto o sbagliato di per sé.

Grammatica italiana

Ciò che stai per dire è corretto?

Il grande filosofo greco, in un aneddoto che si riprende tuttora nelle scuole, chiese a un suo conoscente se quello che stava per raccontargli su un loro amico in comune fosse assolutamente vero. Trasposta nel nostro discorso, la sua domanda suonerebbe così: ciò che stai per dire è corretto?

Capita, infatti, che ci si convinca di sapere rimediare a una svista ortografica o a una défaillance ascoltata oralmente, salvo poi scoprire che la regola non era esattamente come la si ricordava. Il più delle volte succede in buona fede, ma in ogni caso è sempre bene accertarsi di non correggere errori inesistenti prima di procedere.

Per riuscirci, esistono molte risorse e strumenti online che permettono non solo di scrivere in modo più preciso ed efficiente, ma anche di verificare in un batter d’occhio qualunque dubbio grammaticale: perché non approfittarne per consultarle?

Correggere errori è utile?

Sempre nello stesso dialogo, Socrate domandò al suo interlocutore se quanto stava per riferirgli era qualcosa di buono o gentile. Soffermarsi su questo punto è fondamentale per capire fino a che punto correggere errori a cui abbiamo appena assistito possa rivelarsi utile o meno.

Stiamo usando un tono conciliante e costruttivo? Abbiamo modo di confrontarci in maniera diretta con chi ha fatto uno scivolone? Una nostra considerazione in merito potrebbe venire accolta con gratitudine e suggerire nuovi spunti di riflessione per un dibattito sul piano grammaticale (e non solo), permettendo a chi ci circonda di imparare costruttivamente dall’accaduto e di sentirsi aiutato dal nostro intervento?

Se la risposta è no, conviene forse optare per una maggiore discrezione, o comunque rimodulare il nostro approccio, mettendoci nei panni della persona con cui interagiamo e provando a entrare in comunicazione con lei, anziché limitarci a “bacchettarla”.

grammatica per cani e porci massimo birattari

Correggere errori è necessario?

Se anche il nostro contributo ci sembrasse accreditato, le nostre parole andrebbero comunque precedute da un’ultima domanda ispirata a Socrate, che probabilmente è la più delicata delle tre: correggere errori è davvero necessario?

Per rispondere, bisogna avere ben presente il contesto. Potremmo infatti ritrovarci in una situazione che prevede dei turni di parola brevi e serrati, o in cui i rapporti tra le parti sono tesi, o magari abbiamo di fronte a noi anche solo una persona suscettibile, o vulnerabile, o che per qualche motivo si sente già di per sé in difficoltà.

In tutti questi casi, correggere errori che ci è parso di ascoltare o di leggere è forse inopportuno, non tanto perché non sia corretta, utile e ben posta la nostra osservazione, quanto perché arriverebbe in un momento poco fertile. Ciò significa che risulterebbe più saggio rimandare il discorso a un’altra occasione, o aspettare di capire come si evolve la situazione.

Dopotutto, l’abitudine a correggere errori di grammatica, così come la possibilità di commetterli per un lapsus o per altre ragioni, ci riguarda tutti e tutte, e adottare un buon galateo comportamentale non può che giovare sia a chi padroneggia meglio la lingua italiana sia a chi ha ancora qualcosa da apprendere.

Fonte: www.illibraio.it

Una commedia nera con una protagonista molto divertente, apprendista pasticciera, investigatrice suo malgrado

Stefania Crepaldi è l’autrice di “Di morte e d’amore. La prima indagine di Fortunata, tanatoestesta“, romanzo edito da IoScrittore.

Il libro in una frase: Un romanzo giallo che intreccia sorrisi e dolori, con una protagonista, una tanatoesteta, piena di voglia di vivere e di amare che fa i conti con la malvagità e l’avidità del mondo, sullo sfondo magico di Chioggia, città magnifica che a volte sembra vivere di vita propria.

Amici di scaffale: La serie dell’allieva di Alessia Gazzola; La serie di Vani Sarca di Alice Basso.

Segni particolari: Fortunata è una tanatoesteta che non teme la morte, ma teme le profonde ferite che lascia l’amore.

Dove e quando: Chioggia, 2018

Tag: mistery, investigatrice amatoriale, Chioggia, Venezia, omicidio a Venezia, tanatoesteta, pasticceria

Come e perché ho deciso di partecipare a IoScrittore:

Ho iniziato a leggere romanzi per nascondermi al mondo.

I romanzi sono stati un’ancora della mia vita in ogni momento, balsamo per superare ogni difficoltà emotiva, pacche sulle spalle e poderosi calci nel fondoschiena.

Ma mai, mai davvero, avrei pensato di scriverne uno un giorno, poiché tuttora ammanto di sacralità la parola scritta. Nel tempo ho trasformato la mia passione per la lettura in una professione, diventando un’editor di romanzi freelance. In dieci anni di carriera ho aiutato moltissimi aspiranti scrittori a diventare romanzieri affermati.

Durante la pandemia ho iniziato a sentire l’urgenza di raccontare una storia.

Così, ho dedicato i sei mesi successivi a progettare un romanzo che per me era una vera sfida. Volevo tentare di parlare di morte e di amore senza appesantire il lettore. D’altronde, chi di noi può davvero fregiarsi di aver compreso fino in fondo il significato di entrambe le condizioni?

E così è nata Fortunata, straordinaria ragazza di venticinque anni, tanatoesteta di professione che aspira a diventare pasticciera, nel tentativo di poter cambiare per sempre il modo in cui il mondo la mette da parte, giudicandola inadeguata per colpa del suo mestiere.

Ho scritto le prime 50.000 battute e poi mi sono interrogata sul futuro editoriale del romanzo. Avrei potuto, anche grazie al mio lavoro, alla reputazione professionale e alle mie competenze, intraprendere un percorso più convenzionale.

Ma il punto è che io venero i lettori, e rispetto sopra ogni cosa il loro punto di vista. Sedurre e conquistare una serie di lettori a me sconosciuti è diventato un chiodo fisso. A questa esigenza si è unito il bisogno di essere valutata non per il mio nome, ma per la storia che avevo scritto, per evitare qualsiasi tipo di condizionamento.

Così, ho scelto di partecipare a IoScrittore, torneo letterario che avevo consigliato più volte agli scrittori che avevo seguito negli anni.

Passare la prima selezione è stata una gioia profonda, così come leggere i giudizi degli incipit, che mi hanno confermato di essere sulla strada giusta per raggiungere il mio obiettivo: intrattenere il lettore con leggerezza e presentare una protagonista insolita e originale.

La scrittura della bozza definitiva è stata veloce e intensa, e l’ho terminata pochi istanti prima della scadenza imposta dal torneo.

Scoprire, mesi dopo, che la mia bozza era tra i dieci vincitori del Torneo, in una delle edizioni più affollate di sempre (quasi 6.000 iscritti) mi ha reso davvero felice.

Non penso di aver presentato un romanzo perfetto, visto che ho passato i mesi successivi a rielaborarne intere parti, anche strutturali; credo di essere riuscita a vincere per merito dei lettori che hanno partecipato al Torneo, che hanno riconosciuto in Fortunata quella scintilla di originalità che ho tentato di infonderle.

La vittoria di IoScrittore è democratica, e si ottiene grazie al parere di lettori appassionati che spesso muovono giudizi taglienti, ma davvero pertinenti per migliorare un prodotto editoriale.

Trovo che IoScrittore sia una palestra per almeno due motivi: è un torneo lungo, che mette alla prova la resistenza e la capacità di diventare buoni giudici (e lettori) anche per gli altri partecipanti, allenandoci alla visione critica ma lucida delle storie che leggiamo, totalmente inedite; permette a chi ha scelto di mettersi in gioco scrivendo una storia, di entrare subito in contatto con una fetta di pubblico ben precisa, di lettori futuri. Magari questi lettori non saranno proprio appassionati del genere di riferimento, ma anche il feedback di qualcuno non proprio in linea con la propria nicchia può essere di grande (grandissima!) rilevanza quando si aspira a scrivere una storia che conquisti il pubblico più difficile.

La prima indagine di Fortunata, tanatoesteta: tra giallo e commedia con Stefania Crepaldi

Stefania Crepaldi è editor di narrativa e consulente editoriale. Dirige l’agenzia editoriale Editor Romanzi e ha seguito autori che hanno pubblicato con varie importanti case editrici.

Nel 2020 ha pubblicato Lezioni di narrativa. Regole e tecniche per scrivere un romanzo per Dino Audino Editore. Ora arriva l’esordio nel romanzo, Di morte e d’amore – La prima indagine di Fortunata, tanatoesteta, con cui ha partecipato ed è stata finalista del torneo letterario gratuito IoScrittore, promosso da Gruppo editoriale Mauri Spagnol e dalle sue case editrici.

Quello di Crepaldi è un romanzo giallo che intreccia sorrisi e dolori, con una protagonista piena di voglia di vivere e di amare che fa i conti con la malvagità e l’avidità del mondo, sullo sfondo magico di Chioggia.

Le mani di Fortunata sono magiche. Sanno prendersi cura di uomini e donne, con dolcezza e premura. Lavano, vestono, abbelliscono e rasserenano, passano delicate sulla pelle e sul viso. C’è solo un problema: i corpi cui Fortunata provvede sono quelli dei defunti. Lei è infatti l’ultima discendente di una stirpe di becchini, la più antica di Chioggia. Per questo suo padre, un uomo congelato nel dolore per la morte della moglie, vorrebbe che lei ereditasse l’impresa di famiglia. Per questo Fortunata è fin dall’adolescenza vittima dell’ignoranza e della superstizione dei suoi paesani.

Il suo sogno sarebbe quello di diventare pasticciera, e mettere le sue mani così abili al servizio della gioia e della festa e non del lutto. L’occasione le si presenta quando viene assunta per uno stage nel catering dei fratelli Mengolin, famosi ristoratori veneziani. Per Fortunata potrebbe iniziare una nuova vita, ma il primo giorno di lavoro, durante lo sfarzoso matrimonio della figlia della famiglia Boscolo, il padre della sposa muore in circostanze poco chiare, e i sospetti sembrano convergere proprio sulla giovane tanatoesteta. Così Fortunata, per salvarsi, dovrà improvvisarsi investigatrice. E nel suo cammino così difficile il destino le offrirà uno strano alleato, un uomo misterioso quanto affascinante…

Fonte: www.illibraio.it

Onomatopea: significato ed esempi

Significato dell’onomatopea

L’onomatopea è una figura retorica di suono la cui denominazione deriva dal greco ὄνομα, -ατος (“nome”) e ποιέω (“fare”), e che quindi significa letteralmente “creare un nome”. Questa figura retorica (a volte chiamata anche fonosimbolismo) serve a evocare un particolare suono nella modalità più facilmente distinguibile e più diretta possibile.

In particolare le onomatopee sono utilizzate per riprodurre:

  • il verso di un animale (miao, bau, chichiricchì, cra cra, zzz);
  • il suono scaturito da un’azione (etcciù, brr, ah ah, smack, sniff, snap);
  • il rumore prodotto da un oggetto (dlin dlon, crac, ciuf ciuf, clic, bang, crash).

L’onomatopea può essere composta da una sola parola o da più di una, e a volte può basarsi sulla ripetizione di un gruppo fonetico (ra ta ta ta, plin plin). Quando dall’onomatopea viene invece creata una parola vera e propria, (sostantivo o verbo, come per esempio miagolio, scricchiolio, muggire,  bisbigliare, borbottare, ronzare, ticchettio), si parla di onomatopee improprie o di parole di origine onomatopeica.

Spesso la comunicazione di un suono specifico risulta più diretta di lunghe perifrasi descrittive, per via del suo basarsi sulla sua imitazione, anche se a questo proposito è interessante notare che le onomatopee riguardanti lo stesso suono cambiano in base alla lingua in cui le si utilizza, nonostante possano dare l’impressione di essere “universali” nella loro rappresentatività. Il tentativo di imitazione varia infatti in base ai fonemi e alla grafia della lingua in questione. Basti pensare a come si modulano alcune onomatopee indicanti il verso degli animali, come per esempio miao in italiano, che si trasforma in meow in inglese.

Proprio per la loro semplicità, le onomatopee vengono legate in particolare al tipo di registro e linguaggio adatto ai più piccoli. Non per questo, però, il loro uso deve essere considerato “basso”: sono infatti molti i poeti della letteratura italiana ad averle utilizzate.

Esempi di onomatopea

Roy Lichtenstein con la sua opera Whaam!, il cui titolo è un'onomatopea Onomatopee nell’arteRoy Lichtenstein, artista statunitense esponente della pop art, insieme a una delle sue opere più famose, il dittico “Whaam!” (1963, esposto al Tate Modern). Il dipinto imita lo stile dei fumetti, e riporta una gigantesca onomatopea che dà il nome all’opera stessa

Una particolare classe di onomatopee è quella nata e utilizzata nei fumetti, specialmente in quelli di origine americana. Le onomatopee assumono un ruolo particolarmente importante dal momento in cui si diffondono le storie di supereroi, nelle quali diventano fondamentali per la descrizione dei combattimenti. In tutti i fumetti, poi, questa figura retorica assume un ruolo primario, costituendo un testo che entra a far parte della scena stessa anziché essere inserito nelle vignette.

L’onomatopea è stata molto utilizzata anche nella poesia italiana, specialmente nelle poesie futuristiche e da Giovanni Pascoli. Ecco alcuni esempi di onomatopea in poesia:

“Dov’era la luna ? Ché il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù:
veniva una voce dai campi:
chiù

Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù

Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento;
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?… );
e c’era quel pianto di morte…
chiù…”

Pascoli, L’assiuolo, Myricae

 

“…
Sciacqua, sciaborda,
scroscia, schiocca, schianta,
romba, ride, canta,
accorda, discorda,
tutte accoglie e fonde
le dissonanze acute
nelle sue volute
profonde,
libera e bella, numerosa e folle,
possente e molle,
creatura viva
che gode
del suo mistero
fugace.
…”

G. D’Annunzio, L’onda, Alcyone
(come abbiamo visto in questo caso si tratta di onomatopee improprie)

“…
Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
clocchette,
chchch……
È giù,
nel cortile,
la povera
fontana
malata;
che spasimo!
…”

Palazzeschi, La fontana malata, Poemi

“…
forza che gioia vedere udire fiutare tutto
tutto taratatatata delle mitragliatrici strillare
a perdifiato sotto morsi shiafffffi traak-traak
frustate pic-pac-pum-tumb bizzzzarrie
salti altezza 200 m. della fucileria
Giù giù in fondo all’orchestra stagni
diguazzare buoi buffali
pungoli carri pluff plaff impen-
narsi di cavalli flic flac zing zing sciaaack
ilari nitriti iiiiiii… scalpiccii tintinnii
battaglioni bulgari in marcia croooc-craaac
Sciumi Maritza
o Karvavena croooc-craaac grida degli
ufficiali sbataccccchiare come piatttti d’otttttone
pan di qua paack di là cing buuum
cing ciak ciaciaciaciaciaak
su giù là là intorno in alto attenzione
sulla testa ciaack bello Vampe
…”

Marinetti, Zang Tumb Tumb

Differenza tra onomatopea e allitterazione

Anche l’allitterazione è una figura retorica di suono, il cui scopo è quello di richiamare alla mente un particolare stimolo uditivo. Si distingue dall’onomatopea perché non consta di una parola, ma si crea tramite la ripetizione di una lettera o di una sillaba in un verso, in una strofa o in un’intera poesia. Ecco un esempio di allitterazione: 

Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
…”

D’Annunzio, La sera fiesolana, Alcyone

Fonte: www.illibraio.it

Consigli per scrivere un romanzo: scarica gratis il libro in pdf

Avete un “manoscritto nel cassetto” e sognate di pubblicarlo? Siete in cerca di nuovi consigli di scrittura? Vi piacerebbe conoscere il segreto per scrivere e pubblicare un romanzo di successo? Vi siete quindi spesso domandati come si scrive un libro che conquisti fin dalla prima pagina lettrici e lettori (e, prima ancora, un’importante casa editrice)?

La premessa è che è davvero difficile compilare un “codice dello scrittore”, che permetta di muoversi in sicurezza lungo le strade dell’ispirazione e della creatività. Una regola contraddice l’altra, un consiglio pare smentire il precedente. Un metodo è incompatibile con quello che segue. O meglio, quello che vale per me, che mi pare utile, per te può essere completamente inutile, o peggio..

In occasione della 13edizione del torneo letterario gratuito IoScrittore, promosso dal Gruppo editoriale Mauri Spagnol (ci si può iscrivere fino al 7 aprile, caricando sul sito l’incipit del proprio romanzo ineditoqui i dettagli), vi proponiamo anche su ilLibraio.it (tra i partner di IoScrittore sin dalla prima edizione) questo piccolo libro digitale gratuito in pdf, che raccoglie una serie di incipit di romanzi bestseller e le risposte dei loro autori, perché siano di ispirazione, consiglio e divertimento, tenendo sempre ben presente che l’unica regola valida nel campo della creatività è che non ci sono regole, che le leggi sono fatte per essere infrante e rinnovate, che ogni scrittore e scrittrice si inventa le sue tecniche, a partire dalla propria indole, dalle proprie esigenze, dalla situazione – anche fisica – in cui si trova. Con una sola regola imprescindibile: leggere e (ri)leggere quello che si è scritto.

Ecco dunque i consigli di scrittura di importanti autori e autrici italiani e internazionali, come Stefania Auci, Alice Basso, Donato Carrisi, Silvia Celani, Glenn Cooper, Valentina D’Urbano, Wulf Dorn, Catherine Dunne, Giuseppe Festa, Enrico Galiano, Elisabetta Gnone, Helena Janeczek, Giulio Leoni, François Morlupi, Clara Sánchez, Marco Vichi, Andrea Vitali e Silvia Zucca.

scrivere un libro

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Fonte: www.illibraio.it

Fino al 7 aprile ci si può iscrivere gratuitamente alla 13esima edizione del torneo letterario IoScrittore

Per tutti gli aspiranti scrittori e le aspiranti scrittrici sono di nuovo aperte le porte di IoScrittore, il torneo letterario online gratuito promosso dal Gruppo editoriale Mauri Spagnol in partnership con ilLibraio.it, Ubik, Ibs.it e TaobukTaormina International Book Festival.

Arrivato alla sua tredicesima edizione, negli ultimi anni IoScrittore ha dimostrando una crescita importante fino ad arrivare nel 2021 alla partecipazione di oltre 5.000 iscritti sul sito ioscrittore.it e dimostrandosi quindi un punto di riferimento per chi vuole dare una chance al proprio talento.

Quest’anno chi desidera partecipare può iscriversi sul sito entro e non oltre il 7 aprile.

IoScrittore è organizzato dalle case editrici di GeMS (astoria, Bollati Boringhieri, Chiarelettere, Corbaccio, Garzanti, Guanda, Longanesi, Newton Compton, Nord, Ponte alle Grazie, Salani, TEA, Tre60, Vallardi). Un progetto che unisce lo scouting editoriale, mettendo in contatto aspiranti autori con professionisti dell’editoria sempre alla ricerca di storie da pubblicare e di voci nuove e originali, a una vera e propria palestra di scrittura. La sua formula inedita infatti, coinvolge attivamente i partecipanti che, i scritti sotto pseudonimo, sono impegnati sia nella veste di scrittori che in quella di lettori, valutando le opere degli altri partecipanti e ricevendo a loro volta utili giudizi per migliorare la qualità delle proprie storie.

Nel corso di questi anni anche importanti scrittori del panorama editoriale italiano hanno condiviso la loro esperienza mettendo a disposizione dei partecipanti preziosi consigli di scrittura che sono stati raccolti dalla redazione di IoScrittore nell’ebook Scrivere un libro (che conquista fin dalla prima pagina) scaricabile gratuitamente sul sito ioscrittore.it.

“Anche la narrativa nella rivoluzione digitale sta cambiando e i libri si adattano ai tempi. Cercare nuove penne è un istinto primario di Gems, che negli anni ha scoperto e portato al successo decine di autori, perché è da questa ricerca che nasce il modo in cui percepiamo il mondo. Scrivere bene è un dono che deve però trovare la conferma di chi legge. Si dice spesso infatti, che metà del libro lo scrive chi lo legge interpretando le parole dell’autore con il proprio sapere e il proprio vissuto. Ed ecco che IoScrittore è un’esperienza sia personale che sociale della quale moltissimi partecipanti ci ringraziano ed è anche l’occasione di rivelare il proprio talento e di allenarlo, arrivando persino, come è successo più volte ai vincitori, a pubblicare il proprio romanzo in diversi Paesi”, sottolinea Stefano Mauri, Presidente e amministratore delegato di GeMS.

Il calendario di IoScrittore 2022:

In questa prima fase che termina il 7 aprile i partecipanti sono chiamati a caricare sulla piattaforma online l’incipit della propria opera. Sarà quindi Taobuk (16 – 20 giugno) a ospitare in streaming e in presenza l’evento in cui saranno annunciati i 400 finalisti che potranno accedere alla seconda fase del torneo caricando sul sito il testo nella sua versione integrale. L’evento di proclamazione dei dieci romanzi vincitori si svolgerà a novembre in occasione di Bookcity Milano.

IoScrittore premia ogni anno 10 opere con la pubblicazione in e-book e cartaceo on demand, e saranno distribuite in tutti i principali negozi online italiani e internazionali. Inoltre, a insindacabile giudizio delle direzioni editoriali, uno o più romanzi che hanno partecipato al torneo verrà pubblicato in cartaceo da una delle case editrici del Gruppo editoriale Mauri Spagnol. Sono inoltre previsti premi per i migliori lettori, a sottolineare l’importanza della fase di valutazione nel processo di selezione e pubblicazione editoriale.

 

Fonte: www.illibraio.it

Paronomasia: la figura retorica di modi di dire e scioglilingua

La paronomasia è un figura retorica di suono utilizzata in poesia e letteratura, e molto comune anche nei modi di dire e nelle frasi fatte, che consiste nell’accostare due parole dal suono molto simile (dette “paronimi”) ma di diverso significato.

Esistono due tipi di paronomasia, che prendono il nome di apofonica e isofonica. Nel caso della paronomasia apofonica la variazione tra le parole si trova nella loro radice comune; nel caso della paronomasia isofonica, invece, variano vocali o consonanti che non appartengono alla sillaba su cui cade l’accento.

Generalmente, comunque, entrambe riguardano una differenza fonetica minima tra i termini interessati, tant’è che l’uno differisce dall’altro solo per una o due lettere.

L’etimologia della parola deriva dal greco paronomasía, il cui significato coincide con quello che gli attribuiamo oggi: pará significa “vicino”, mentre ónomasia è il corrispettivo di “denominazione”.

La paronomasia, che venga usata nella comunicazione scritta o verbale, ha la funzione di attirare l’attenzione di chi legge o ascolta (e per questo trova utilizzo anche in campo pubblicitario). Si tratta di una figura retorica che conferisce infatti una certa musicalità al testo e, in base al suo significato, anche una sfumatura di giocosità, a volte a sfondo umoristico (caratteristica che la rende adatta ai modi di dire).

La difficoltà nel pronunciare vicine più parole dal suono simile è infine ciò che rende la paronomasia una figura retorica presente anche negli scioglilingua, e il cui risultato è ancora più efficace se i due termini hanno un significato molto lontano tra di loro (come nel celebre modo di dire “Dalle stelle alle stalle”).

Esempi di paronomasia

Esempio di paronomasia nell'arte Essendo la paronomasia una figura retorica di suono, non ha un vero corrispondente nell’arte figurativa. Lo schema del suo funzionamento però è simile a quello usato da Andy Warhol nella creazione della celebre opera ‘Marilyn Monroe (Marilyn)’ del 1967. L’immagine di Monroe cambia infatti in ogni dipinto, ma solo per il colore, così come nella paronomasia sembra di trovarsi quasi di fronte alle stesse parole, diverse solo per una o poche lettere.

Ecco alcuni esempi di paranomasia presenti in frasi fatte o modi di dire usate nel linguaggio quotidiano:

  • carta canta
  • capire fischi per fiaschi
  • via vai
  • volente o nolente
  • il troppo stroppia
  • parenti serpenti
  • scelta svelta
  • senza arte né parte
  • spendere e spandere
  • chi non risica non rosica
  • sesto senso
  • via vai
  • fare la fame
  • dalle stelle alle stalle
  • amore amaro

Alcuni esempi di scioglilingua in cui si può ritrovare la paronomasia sono “Sopra la panca la capra campa, sotto la panca la capra crepa” e ancora “Apelle figlio di Apollo fece una palla di pelle di pollo; tutti i pesci vennero a galla per vedere la palla di pelle di pollo”.

Veniamo invece agli esempi di paronomasia in poesia:

“…

e non mi si partía d’innanzi al volto,
anzi impediva tanto il mio cammino, ch’i’ fui per ritornar piú volte volto

…”
(D. Alighieri, Canto I, Inferno)

“Cigola la carrucola del pozzo,
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride.

…”
(E. Montale, Cigola la carrucola nel pozzo, Ossi di seppia)

Rosa, riso d’Amor, del Ciel fattura,
rosa del sangue mio fatta vermiglia,
pregio del mondo e fregio di natura

…”
(G. Marino, Elogio della rosa, Adone)

“…

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi

…”
(E.Montale, Meriggiare pallido e assorto, Ossi di seppia)

“…
Scrisse musiche inedite, inaudite,
oggi sepolte in un baule o andate
al màcero. Forse le riinventa
qualcuno inconsapevole, se ciò ch’è scritto è scritto.

(E. Montale, Tuo fratello morì giovane, Satura)

“…

Quivi stando, il destrier ch’avea lasciato
tra le piú dense frasche alla fresca ombra,
per fuggir si rivolta, spaventato
di non so che, che dentro al bosco adombra:
e fa crollar sí il mirto ove è legato,
che de le frondi intorno il piè gli ingombra:
crollar fa il mirto e fa cader la foglia;
né succede però che se ne scioglia.

…”
(L. Ariosto, Orlando furioso)

Fonte: www.illibraio.it

In tempi di bolle social e conformismo del gusto, voglio prendermi la responsabilità di non piacere

Voglio bene ai miei lettori, ma devo sempre provare a compiacerli?

Da bambina i libri mi salvavano continuamente. Ero una bambina alta e troppo timida per essere così alta, molto brava a scuola, dunque secchiona in un’epoca in cui nessuno si era sognato di coniare la smagliante etichetta di nerd come un attestato di brillantezza.

Ero scarsa in educazione fisica, come ogni secchiona che si rispetti, e gli sport di squadra con la palla mi terrorizzavano. Oltretutto, i miei genitori avevano preso delle decisioni pedagogiche forse un po’ in anticipo sull’allegro consumismo degli anni ’90: niente TV, niente Nutella, niente Barbie. Per merenda, a scuola, tutti avevano la Fetta al latte, io una banana – da cui la mia attuale avversione per il frutto, ma questa è un’altra, lunga, storia.

Tutte le bambine e i bambini il pomeriggio guardavano Bim Bum Bam, io no. A scuola sentivo riferimenti che coglievo per spizzichi e bocconi, Sailor Moon ci ho messo anni per capire chi fosse, così come Lady Oscar.

Io che non guardavo la televisione, allora, leggevo, leggevo tantissimo. Mi sembrava l’unica cosa da fare; evidentemente nell’infanzia si ha bisogno di storie. Leggevo e i libri mi creavano intorno una protezione; perché ero sì una secchiona scarsa a pallavolo, ma ero anche quella che le storie le sapeva raccontare. Ero quella dei libri, e in un senso sottile, malgrado la pallavolo e le banane, questo mi dava una certa qual dignità, un piccolo ruolo, di cui forse da bambini abbiamo bisogno quanto abbiamo bisogno di storie.

A furia di leggere ero diventata brava a scrivere, anche questo a scuola si sapeva; mi sarei risparmiata volentieri le letture pubbliche dei miei temi, io in piedi accanto alla lavagna, santo cielo, perché non ero più bassa, bassissima, da nascondermi sotto un banco?, ma ecco, nonostante tutto sentivo nel mio rapporto con le parole qualcosa di un po’ magico che mi salvava, in parte, dalla condanna a essere diversa, a essere isolata, quella con la banana per merenda che non sa chi è Candy Candy.

Dell’incantesimo dei libri mi appropriavo a modo mio. Sentivo di aver bisogno di un mondo parallelo, di un rifugio dalla vita quotidiana, con i suoi cieli grigi, i compiti che già allora, benché secchiona, rimandavo alla sera ritrovandomi sempre indietro, la ginnastica e le banane, un mondo che era precisamente quello che mi si apriva con i libri, molto congeniali anche perché mi risparmiavano la fatica del viaggio e in un battibaleno mi catapultavano in una Londra vittoriana o nella Pennsylvania delle sorelle March o addirittura in Malesia; ma avevo bisogno, anche, di un modo per fermare la vertigine di certe felicità, di certi momenti che non mi pareva bastassero, se vissuti soltanto.

Il giorno che mi resi conto della fortuna che avevo a passare una parte dell’estate con mia sorella e le nostre nonne in una casa sull’Appennino, fra i boschi di abeti e le cerrete, mi ricordo ancora l’urgenza che mi prese, di scrivere di quelle giornate – sentivo che altrimenti le avrei perse.

Il giorno che nel cortile della mia scuola elementare, a Milano, di colpo tornava ad addensarsi l’ombra verde degli ippocastani, era primavera, si inaugurava la stagione dei gelati e delle sere lunghe, e anche quelle sere mi struggevano. Mi chiedevo se me le sarei ricordate, da grande; e oggi che sono grande, quelle sere di aprile a Milano io le cerco senza ritrovarle dentro le sere di tutte le città in cui ho abitato, ma il modello irreplicabile l’ho ben presente, perché allora me l’ero scritto. Il giorno che la mia prima gatta tornò dopo essere sparita per una settimana, il sollievo immenso di averla ritrovata; e ancora di più, l’emozione violenta di un altro giorno, sempre della stessa estate, quando dalla cuccia che le avevamo preparato sotto un comò arrivò un suono nuovo – era nato il suo figliolino, un micino che cerco, e ritrovo, ancora, ogni volta che vedo una vita piccola, appena cominciata.

Anche di quei sollievi e di quegli spaventi, avevo scritto, e non importa che i quaderni su cui li ho fermati siano andati persi; mi rimane il ricordo dello sforzo, della fatica di me bambina, ostinata come un mulo, nel voler trasportare in parole quello che sentivo. Certo goffamente, certo oggi se ritrovassi quei quaderni sorriderei, offendendo molto la stessa bambina; ma quella fatica, oggi lo so, era l’inizio di un apprendistato solitario.

Per molto tempo ho sognato di diventare una scrittrice, e non sapevo che bisogna stare attenti a quello che si desidera. Non conoscevo, allora, il potere formidabile delle preghiere esaudite; lo spaesamento del desiderio che diventa reale e ti costringe all’attrito con il mondo, con i mille piccoli impedimenti quotidiani, con le noie e gli inciampi. Soprattutto, con quella sensazione un po’ smarrita, tanto simile al momento in cui ci accorgiamo che quel tale che ci ha urtati sul métro ci ha sfilato il portafogli dalla borsa, di renderci conto che una cosa solo nostra non è più nostra, o almeno, non nostra e basta.

Insomma, ho sognato da bambina di fare la scrittrice, e non mi ero curata delle conseguenze. Ora inizio a conoscerle. Non che siano spiacevoli – tutto il contrario. È bello, e sarei un’ipocrita a negarlo, essere vezzeggiata, sentirsi dire: quella pagina lì mi ha parlato, o mi ha commosso, o mi ha fatto capire qualcosa che non riuscivo a mettere a fuoco. È bello che ci siano persone che ti chiedono quando uscirà il prossimo libro, perché lo aspettano, perché hanno voglia di leggere qualcosa che è uscito dalla tua testa, e un po’ come Atena quando esce dalla testa di Zeus, si manifesta con una forte emicrania paralizzante e poi è già pronto ad andarsene per il mondo, in una minuscola armatura che forse non lo proteggerà abbastanza. Però è bello. È bello sentirsi dire che le tue parole sono importanti, come potrei negarlo?

Ma proprio questi aspetti così gratificanti di un mestiere per altri versi arduo, sono forse i più pericolosi. Innanzitutto, innescano una sorta di dipendenza – una dipendenza affettiva? Forse sì, forse c’è anche quello: l’idea che se sarai abbastanza brava ti meriterai l’amore, altrimenti… altrimenti niente.

In secondo luogo, condizionano le tue scelte autoriali in maniere sottili, surrettizie, talvolta difficili da individuare. Come il pittore di un bellissimo racconto di Gogol, Il ritratto, che vittima di un incantesimo riesce, da spiantato giovanotto di talento, a diventare il pittore alla moda da cui tutta la buona società vuol farsi fare il ritratto perché nei suoi ritratti i difetti appaiono smussati, perché i suoi sono ritratti lusinghieri e la gente si compiace della lusinga. E accumula ricchezza e onori, e solo quando ormai è troppo tardi si rende conto che, pur di compiacere il pubblico, ha rinunciato a coltivare il talento che aveva. E le parole troppo tardi si trasformano in una rabbia cieca, come solo le rabbie che nascono da grandi dolori.

D’altronde, così come i modelli dei ritratti di quel pittore di Pietroburgo, i lettori hanno i loro diritti, e hanno ragione di esercitarli.

ilaria gaspari Ilaria Gaspari: “Quello di disturbare, di turbare, di mettere in crisi i lettori, è un diritto sacrosanto, io credo, di chi scrive…”

A volte vogliono essere rassicurati. A volte vogliono sentirsi virtuosi. A volte vogliono “un messaggio”. A volte vogliono sentirsi intelligenti… A volte trovano libri che soddisfano questi desideri, altre volte trovano libri che li disturbano; e quello di disturbare, di turbare, di mettere in crisi i lettori, è un diritto sacrosanto, io credo, di chi scrive.

D’altra parte, è il minimo, visto che chi legge ha tutto il diritto di dire questo mi piace, questo non mi piace; di chiudere un libro senza sentirsi in colpa per aver sospeso la lettura; di essere provocato, stimolato, rinfocolato dalle parole, non semplicemente rassicurato.

Un problema ancora nebuloso ma reale, almeno a mio modo di vedere, per le autrici e gli autori oggi, è che – fermi restando questi diritti fondamentali, di chi scrive e di chi legge – i social convogliano, sia in chi legge che in chi scrive, l’idea di un’ingannevole prossimità che trasforma aspettative in pretese; una familiarità densa e persistente, che talvolta è anche piacevole, anzi, che può essere l’occasione perché nascano amicizie, confronti fecondi, nuove idee; ma rischia di trasformarsi in una stanza che è anche una prigione.

Senza rendermene conto lì per lì, mi sono sentita, a volte, come Paul Sheldon, lo scrittore che a un certo punto inizia a censurarsi da solo, pur di non contrariare – o pur di compiacere? – l’infermiera folle Annie Wilkes che lo tiene in ostaggio, in quella formidabile metafora del rapporto fra artista e pubblico che è Misery, il romanzo in cui Stephen King diede forma all’incubo del successo che lo strangolava dai tempi della pubblicazione del suo Carrie.

Paul Sheldon è noto per una serie di libri a vivaci tinte popolari, molto sentimentali, molto kitsch ai suoi stessi occhi. Il grande pubblico per questo lo adora, ovviamente la critica lo disprezza; e lui, che vuole riscattarsi da questo disprezzo, che desidera essere accreditato come scrittore serio, ha appena finito di scrivere un romanzo sofisticato, così diverso dalla saga di Misery. Proprio non si aspetta di finire prigioniero di un’infermiera fuori di testa, che lo costringerà a riprendere la storia della sua eroina preferita. Soprattutto, non si aspetta che l’infermiera, nonché sua “fan numero uno”, dopo aver letto il nuovo manoscritto gli possa manifestare un disprezzo che lo ferisce molto più del disdegno della critica. E che quindi la sua sfida, la sua pulsione più segreta e inconfessabile, diventi quella di accontentare il gusto di Annie, censurando le sue stesse velleità. E se i romanzi del ciclo di Misery, dopotutto, fossero davvero quelli che gli riescono meglio? Da vero volpone, King lascia la questione aperta; perché, da vero scrittore, sa evitare di scivolare dentro una morale univoca.

misery stephen king

Il romanzo è del 1987, appartiene a un’età in cui l’avvento dei social era ancora ben al di là da venire, eppure, come molti grandi libri, riesce a illuminare, oltre al momento in cui è stato scritto, anche un futuro allora imprevedibile. Quello che negli anni ’80 in cui King scrive Misery riguardava solo chi vendeva centinaia di migliaia di copie, grazie ai social e all’esposizione universale che garantiscono si amplifica, diventa un fenomeno dalla portata molto più vasta. Qualcosa che non riguarda più l’autore di bestseller che vuol lasciar andare il personaggio che gli ha dato il successo e gli sembra averlo privato della libertà di invenzione così essenziale a chi scrive, ma anche chi ben più modestamente si arrabatta nel mondo delle lettere. Non solo chi vende 100,000 copie, ma anche chi spera di venderne 10,000, o 5,000, o pure 1,000. Non solo chi è strangolato dal successo, ma chi il successo lo sogna, e lo desidera, in una fantasticheria alimentata dalla competizione che i social argutamente attizzano, inibendo spesso la domanda fondamentale: ma poi, il successo, sarà davvero così desiderabile?

In questo acquario virtuale in cui tutti ci si tiene d’occhio, in cui sembra indispensabile (e dopo averlo fatto con relativa naturalezza anch’io, per molto tempo, come se fosse ovvio, ultimamente mi chiedo sempre più spesso: e se smettessi?, e piano piano ho iniziato a scordarmi di quell’articolo, o di quella recensione, e non è cascato il mondo) condividere la notizia di quel che si fa, si pubblica, dei riconoscimenti e dei premi, delle traduzioni e delle ristampe, prosperano le freddezze, i piccoli fastidi nascosti ma non troppo, i risentimenti e qualche volta il franco disprezzo.

E te li devi aspettare, ti devi aspettare il messaggio di quel tale che ti accusa di esserti venduta al mercato, di quel talatro che dice che scrivi pattumiera. Ti devi aspettare il disprezzo tanto quanto il plauso, pure un po’ di più; e certo non è facile, ma è un allenamento anche questo, una sorta di esercizio spirituale.

Le prime volte, a leggere un commento cattivo, ti sembrerà di ritrovarti a origliare per caso da dietro una porta mentre nella stanza parlano male di te – tu passavi di lì, non avevi intenzione di ascoltare, e invece rimani con i piedi inchiodati a terra, le guance avvampate, senti ogni parola e a ogni parola ti vergogni di più. Succede. Poi ti ricordi che è successo anche alla Catherine di Northanger Abbey, un romanzo di Jane Austen che hai amato quando eri bambina, e capisci che non ci sono parole che ti toglieranno quello che hai amato, quello che cerchi, quello che ami. Pensi che la cosa migliore sia provare, per quanto possibile, a conservare quel tratto dell’infanzia, quello della vita segreta, una vita contigua al gioco, una vita che non solo nessuno ti vedeva vivere, ma che ti concedeva il privilegio di non doverti aspettare proprio niente. Non ti aspetti niente – non mi aspetto niente, allora, e se arrivano, il disprezzo e qualche volta una lode, cerco di accogliere l’uno e l’altra evitando drammi ma pure esultanze giulive che mi farebbero male.

È pur vero però che il grande acquario ha la funzione di ingigantire e di rendere sempre potenzialmente visibili fenomeni che comunque si verificherebbero, ma magari, senza il contributo dei social, un po’ più nascosti; l’impressione che ho è che il confronto continuo di pareri e opinioni delle cosiddette “bolle”, circoli di persone, anzi di utenti, che l’algoritmo titilla rimandando a ognuno i post, le opinioni, i commenti e le preferenze degli altri sulla base di un’appartenenza comune, di una condivisa visione delle cose, dia adito a un involontario uniformarsi dei gusti e degli interessi. Tutti guardano gli stessi film, le stesse serie, leggono gli stessi libri, nello stesso momento; e nello stesso momento li commentano, e strano a dirsi, o forse no, poco a poco i pareri si allineano, magari su due fronti contrapposti – chi adora smisuratamente quel film, quella serie, quel libro, e chi lo detesta.

Si crea, anche qualche volta per contrasto, un conformismo del gusto che pare non ammettere che qualcuno non abbia una sua opinione, entusiasta o delusissima, su quel certo prodotto dell’industria culturale, che proprio queste reazioni denunciano come un prodotto di consumo a tutti gli effetti, una merce, ma questo lato della questione in genere rimane sottotraccia – e se emerge, è per polarizzare nuove discussioni.

E allora, dentro questi gruppi che si rassicurano a vicenda sul proprio stesso gusto, sulla propria sensibilità, qualche volta sulla propria sofisticatezza, succede quello che sempre succede nei gruppi. Si cercano messaggi chiari, che purtroppo, a mio parere almeno, negano proprio l’incanto ambivalente della letteratura, la sua pericolosissima, deliziosa seduzione. E si cercano rassicurazioni: storie che facciano sentire intelligenti senza scuotere troppo, che sappiano risolversi in un “tema” che, di nuovo, possa essere messaggio; una gravità che permetta di mantenersi seriosi anche eventualmente nell’ironia, ammessa se ben dosata, personaggi possibilmente bistrattati dalla vita, problematici; bene se poveri, se ricchi o abbienti, invece, infelici abbastanza da non meritarsi l’accusa di essere troppo frivoli.

Generalizzo, certo, ma lo faccio perché io stessa, qualche volta, come un Paul Sheldon più approssimativo, mi sono sorpresa da sola a censurarmi le idee per rincorrere l’approvazione di un pubblico immaginario, immaginato. Poi ho pensato che non fa onore né a me né a chi mi legge, trattare anche solo nell’immaginazione i lettori come delle piccole Annie Wilkes. Ho pensato che mi voglio prendere la responsabilità di non piacere, lo devo alla bambina che sono stata e che amava i libri di gente che certo non si lasciava ricattare dalla paura di un commento a una stella su Ibs – del resto, i commenti a una stella non risparmiano neanche loro, e nessun libro da questo è sminuito.

Gran parte della fatica, nel mio lavoro attuale – e certo, mi direte, ci sono fatiche ben più ardue – consiste nel mantenere un equilibrio fra i rischi della vanità e quelli della frustrazione. Il giorno che troverò un modo per riuscirci, per restare in bilico senza scivolare troppo di qua o di là, festeggerò la mia liberazione; nel frattempo mi sforzo più che posso di coltivare l’arte rinascimentale della sprezzatura, di non prendere troppo sul serio il mio lavoro e i miei drammi, di tenere gli occhi ben aperti sul mondo, non solo quello virtuale, e soprattutto, di non aspettarmi mai niente.

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, scrittrice, filosofa e collaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno),  Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi) e, sempre con Einaudi, Vita segreta delle emozioni. Scrive per diverse testate, e collabora con radio, tv e scuole di scrittura.

Fonte: www.illibraio.it