Frasi sulla primavera, alcune fra le più belle tratte dalla letteratura

Colori, suoni, emozioni: ogni anno, quando ritorna la primavera, sembra che li riscopriamo per la prima volta dopo un tempo immemorabile, come se la stagione fredda che ci siamo appena lasciati alle spalle fosse durata un’eternità.

Ed ecco che ci ritroviamo d’un tratto pieni di energie, pervasi dal buonumore, e soprattutto grati alla natura per la possibilità che abbiamo di vederla sbocciare nuovamente, accompagnandola verso una rinascita che forse, sotto sotto, è un po’ anche la nostra.

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Per celebrare il suo ritorno e per riscoprirne la bellezza prendendo in prestito le parole degli scrittori e delle scrittrici che ci hanno preceduto, ecco allora alcune delle frasi più belle sulla primavera tratte dalla letteratura, in una selezione che va da Rainer Maria Rilke a Emily Dickinson, passando per Lev N. Tolstoj e per Anne Bradstreet

Impossibile non prendere le mosse da Alda Merini (1931-2009), la poetessa milanese nata proprio nel giorno dell’equinozio di primavera – a cui non a caso ha dedicato un’evocativa poesia dal titolo Sono nata il ventuno a primavera, che è tratta da Il suono dell’ombra. Poesie e prose (1953-2009) (Mondadori, a cura di Ambrogio Borsani) e che inizia così:

Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.

Una delle frasi sulla primavera di Alda Merini

Altrettanto suggestivi sono poi i versi del poeta tedesco Rainer Maria Rilke (1875-1926), il quale nei suoi Sonetti a Orfeo (Garzanti, traduzione di Rina Sara Virgillito) ne scrive uno contenente una di quelle frasi sulla primavera che, nella loro semplicità, sarebbero però capaci di affascinare e sorprendere chiunque. Ci riferiamo al Sonetto 1, XXI, che si apre come segue:

Ritorna primavera. Ed è la terra
come un bimbo che sa le poesie.

Se tanta meraviglia per la bella stagione sembra pervadere gli intellettuali di tutto il mondo e di tutte le epoche, la poetessa inglese Anne Bradstreet (1612-1672) – la prima a essere vissuta nelle colonie americane dell’Inghilterra e a pubblicare le sue opere – ci tiene a ricordarci in un breve passo contenuto in Meditations Divine and Moral (testo edito negli Stati Uniti nel 1664) che:

Se non ci fosse l’inverno, la primavera non sarebbe così piacevole.

Una delle frasi sulla primavera di Anne Bradstreet

Come dicevamo all’inizio, infatti, anche se servono interi mesi di preparazione affinché la terra possa tornare rigogliosa, la percezione comune è che la primavera ci colga sempre impreparati, come in Anni con mio padre (Jouvence, prefazione di Daniel Gilles) la memorialista Tat’jana L. Tolstoj (1864-1950), figlia di Lev N. Tolstoj (1828-1910), ci racconta che un giorno osservò suo padre:

Fatta una passeggiata a cavallo… Primavera straordinariamente gradevole. Ogni volta non riesco a credere ai miei occhi. È possibile che tutta quella bellezza nasca dal niente?

A quanto pare, peraltro, ciò che scriveva Tolstoj non solo è possibile, ma accade più spesso di quanto potremmo immaginare. A darcene conferma sono i versi di Un chimico, un brano musicale che, essendo stato composto da un cantautore del calibro di Fabrizio De André (1940-1999), potremmo comunque inserire nel novero delle frasi sulla primavera tratte dalla letteratura:

Primavera non bussa, lei entra sicura,
come il fumo lei penetra in ogni fessura.
Ha le labbra di carne e i capelli di grano:
che paura, che voglia che ti prenda per mano!
Che paura, che voglia che ti porti lontano… 

Una delle frasi sulla primavera di Fabrizio De André

Del resto, nonostante i segnali che la annunciano siano sempre uguali, ogni primavera ci infonde un benessere diverso dal solito, coinvolgendoci come se fosse la prima volta e come se anche per noi si preannunciasse una nuova vita, proprio come notava nel 1931 l’autore inglese Theodore Francis Powys  (1875-1953) nel suo Il mietitore di Dodder (Mondadori, traduzione di Elio Vittorini):

La primavera è sempre, a tutti, una rinascita.

E concludiamo con un’altra poesia, stavolta in senso stretto, dedicata a sua volta alla stagione dei fiori: si chiama A ogni incontro con la primavera ed è frutto dell’ingegno della scrittrice inglese Emily Dickinson (1830-1886), nella cui raccolta Poesie (Bompiani, traduzione di Ariodante Marianni) non mancano le toccanti impressioni ispirate proprio al miracolo della natura:

A ogni incontro con la primavera
non so star quieta – sorge il desiderio
antico, un’ansia mista ad un’attesa
una promessa di bellezza
e una gara di tutto il mio essere
con qualcosa che in essa si nasconde.

(Le grafiche sono state realizzate con Canva)

Fonte: www.illibraio.it

Che cosa significa l’espressione “Una rosa è una rosa è una rosa”?

L’origine di Una rosa è una rosa è una rosa

Rose is a rose is a rose is a rose
Loveliness extreme.
Extra gaiters, Loveliness extreme.
Sweetest ice-cream.

Recitano così, in lingua inglese, alcuni versi di un componimento scritto dalla poetessa statunitense Gertrude Stein (1874-1946): la lirica, che si intitola Sacred Emily, venne scritta nel 1913 e pubblicata nel 1922, senza che probabilmente l’autrice potesse sospettare l’impatto culturale che era destinata ad avere.

Nel corso del tempo, infatti, questa poesia basata sulla tecnica del flusso di coscienza, sulla musicalità e sul ritmo, ci ha spinto a concentrarci non sulle singole parole scelte da Stein, ma sulla loro funzione più ampia all’interno del componimento.

Gertrude Stein, la poetessa a cui si deve il verso "Una rosa è una rosa è una rosa" Gertrude Stein (GettyEditorial)

Un discorso che, in particolare, si applica al verso Rose is a rose is a rose is a rose, tradotto in italiano come Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa, o in altri casi con le virgole a scandire meglio la frase: Una rosa è una rosa, è una rosa, è una rosa.

Perché, se a prima vista ci troviamo davanti a un’affermazione priva di chissà quali risvolti, la verità è che Una rosa è una rosa è una rosa (questa la sua abbreviazione più comune) è un’espressione idiomatica ben più rilevante di quanto potremmo pensare, che non per niente è conosciuta e ripresa spesso dai pensatori dei giorni nostri.

La rosa come simbolo

Per capire meglio cosa intendesse dire Stein con questa affermazione così criptica, ma al tempo stesso così famosa, facciamo innanzitutto un passo indietro: cosa intendiamo di solito noi, quando parliamo di una rosa? Di un fiore spontaneo, certo, ma è davvero tutto qui?

Se ci pensiamo bene, fin dall’antichità la rosa è stata uno dei simboli prediletti di intellettuali, poeti, artisti, filosofi: la sua purezza e la sua correlazione all’amore (non solo passionale) sono ormai diffusi in ogni parte del mondo e, grazie al suo profumo, alla sua bellezza e non da ultimo alle sue spine, una rosa racchiude in sé un vero e proprio tesoro (e thesaurus) di significati.

Non è un caso, quindi, che Stein inserisca nel componimento questa considerazione: da donna di cultura quale era, non stava solo optando per un gioco di parole tautologico, che avrebbe sortito un effetto simile con qualunque altro termine inserito al suo posto, bensì per un’osservazione più profonda, più consapevole, più sfaccettata.

Le riflessioni di Umberto Eco

Ora che abbiamo inquadrato le premesse da cui parte l’autrice, possiamo prendere spunto da alcune riflessioni suggerite da Umberto Eco (1932-2016) per sviscerare meglio la poesia: “C’è un eccesso di ridondanza“, osserva infatti il semiologo e filosofo piemontese nel saggio La struttura assente (La Nave di Teseo), e “la ridondanza genera tensione“, stimolando la nostra curiosità e attenzione.

“Che cosa capisco io di quello che mi sta dicendo Stein? Lei dice soltanto ‘rosa’, e mi lascia libero di riempire quella parola dei significati che più mi appartengono e sento vicini. Chiama in causa letture, sentimenti, congetture. Chiama in causa me“, prosegue Eco, proponendoci un’interessante chiave di lettura per penetrare il verso di Stein.

Dopo che ha sottolineato il principio di identità per cui una rosa è uguale a una rosa, ovvero a sé stessa, la poetessa prosegue non a caso ripetendo che una rosa è una rosa, come se stavolta si stesse riferendo a un’altra rosa, una diversa rispetto alla prima che ci aveva proposto.

La teoria più accreditata, tanto da parte di Eco quanto da parte della critica letteraria, è pertanto che – usando la figura retorica della ripetizione – Gertrude Stein voglia richiamare alla nostra mente le tante accezioni di rosa a cui accennavamo, con tutte le connotazioni che da secoli portano con sé: “La prima rosa è una rosa, la seconda forse è già l’amore… e la terza? (Tenete poi conto che, nella poesia, si nomina a un certo punto un certo Jack Rose…)”.

Dire rosa, come d’altronde avremo ormai intuito, può sembrare giusto un modo per nominare un fiore di quattro lettere, ma la verità è che pronunciare questa parola, evocandone il suono e i valori, genera in noi numerose associazioni di idee, che si susseguono in maniera automatica, quasi inconscia, come se fossero seguite l’una dopo l’altra solo da una virgola, trasportandoci in un mondo fatto di echi, di suggestioni, di immagini: Una rosa è una rosa, è una rosa, è una rosa

Fonte: www.illibraio.it

Chi si nasconde in rete dietro un nickname non ha più possibilità di sfuggire…

Il libro in una frase

Ho scelto di fare il nickname hunter perché il mio nome è un nickname.

Amici di scaffale

I miei amati monaci: Rodolfo il Glabro, Liutprando da Cremona, Salimbene de Adam, Lupo di Ferrières 

l’abate Sugerio e Otlone di Sant’Emmerano, il più punk di tutti. Leggendoli, la domanda è sempre la stessa: ma quanto doveva far freddo intorno all’anno Mille? 

Segni particolari

Scrivere utilizzando pezzi di testo presi dalla rete, come un quadro pop art. 

Dove e quando

In mezzo allo smog, ai palazzi, al cemento, al rumore. Avrei detto ora, ma data la velocità con cui tutto cambia, direi una decina di anni fa. 

Come e perché ho deciso di partecipare a IoScrittore

Non mi piace far leggere il testo a parenti, vicini di casa, cugini alla lontanissima, pseudoamici di tris grado. Si ruba loro del tempo prezioso e il giudizio non è mai obiettivo. Con IoScrittore avevo l’opportunità di sottoporre il lavoro a persone disposte davvero a mettersi in gioco. I giudizi mi hanno effettivamente aiutato a migliorare alcuni tratti del racconto, che inviavo per la terza volta. E poi dai, diciamocelo chiaramente: che scrittore sei senza nemmeno una stroncatura?   

Tag

#nickname #Milano #centrifughe #Veganforpresident #cellulare #hashtag 

Chi si nasconde in rete dietro un nickname non ha più possibilità di sfuggire…

Centinaia di persone individuate, servizio altamente professionale, massima riservatezza, indagini personalizzate. E no, non sono le solite frasi che si scrivono su un sito internet. Nickname Hunters Investigations, romanzo di Francesco Cellini protagonista al torneo letterario gratuito IoScrittore (promosso dal gruppo GeMS) ora disponibile in ebook, porta alla scoperta dell’agenzia investigativa più avanzata del Terzo millennio, in grado di mandare in pensione i vecchi detective…

Nickname Hunters Investigations di Francesco Cellini

Lo scopo principale della futuristica agenzia al centro della trama è scovare le vere identità dietro le migliaia di nickname che si trovano sparsi in rete. Per farlo, non è più necessario rischiare la pelle in luoghi poco raccomandabili e girare con la pistola. Le informazioni ormai si trovano tutte su Internet, basta saperle cercare. E avere il tempo per farlo…

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Ed è proprio questo il metodo che verrà adottato per risolvere il Dossier @RIP, che si apre quando un cliente scopre che un dato giorno, a una data ora e in un luogo ben preciso verrà commesso un omicidio. Un omicidio di cui lui stesso sarà la vittima. Non resta molto tempo per sventare il delitto a colui che è il cuore operativo della Nickname Hunters Investigations: Cremalcarè Rossi, che ha deciso di fare il nickname hunter perché il suo nome è un nickname.

L’autore è nato in Toscana ma vive a Milano, dove lavora come creativo in un’agenzia pubblicitaria, e quando non inventa slogan va a correre e legge libri acquistati al mercatino dell’usato di piazza Diaz.

Fonte: www.illibraio.it

Bocciare di più migliora la qualità della scuola? – di Enrico Galiano

Questa storia torna fuori da anni: si boccia troppo poco! La nostra scuola va a rotoli perché vige la regola del tutti promossi!

È uno dei cavalli di battaglia di molti esimi commentatori ed editorialisti: una scuola che non boccia non è seria, dicono. È una scuola buonista che non fa bene agli studenti, assicurano.

Adesso poi ha fatto discutere un recente esame (un “pre-test”, qui i dettagli sul caso, ndr) del Prof. Burioni, con 10 promossi su 408 candidati, e il conseguente profluvio di plausi e lodi sperticate: “Finalmente si fa vera selezione!”, “Così evitiamo di dare il camice a degli incompetenti!”.

Partiamo proprio da quest’ultimo fatto recente, perché mi sembra un ottimo case-study. E mettiamo subito in chiaro una cosa semplice semplice, oserei dire lapalissiana: se arrivi all’università e non sei preparato, è giusto essere bocciati.

Però, però.

Qui la domanda sorge spontanea, e dovrebbe invero essere la domanda che il professor Burioni dovrebbe farsi – o chi ha preparato in vece sua gli studenti per quell’esame – e cioè: non è che forse forse questi studenti sono stati preparati male?

Insegnando da anni ho individuato una soglia, spannometricamente da stabilire fra metà e un terzo degli studenti insufficienti, oltre la quale so che chi ha fatto male non sono stati loro, ma io.

I motivi? Possono essere mille: magari li ho messi davanti alla prova troppo presto, oppure non mi sono sincerato che avessero davvero compreso gli argomenti. Fatto sta che se la metà di loro è andata male, sono io che sono andato male.

La morale di questa storia è abbastanza semplice: se ci sono troppi studenti impreparati, non è bocciare la soluzione. La soluzione è prepararli meglio. Offrire loro motivazione e stimolo. È il famoso principio del dentifricio: prevenire è meglio che curare.

Essere fan della bocciatura come soluzione è un po’ come credere che, per aver meno carie e denti più puliti in giro, il segreto sia darci sotto con trapani e dentisti.

Ma io la conosco l’obiezione: il trapano non deve essere usato, solo sventolato davanti al mangiatore seriale di caramelle. Fuor di metafora: sventolare la minaccia della bocciatura dovrebbe servire, nella mente di molti, a stimolare il pigrone a darsi da fare.

Certo, come no.

Chiederei a chiunque la pensi così di citarmi delle fonti di testi di pedagogia scritti dopo il 1990 che sostengano questa tesi. Mi basta anche un articoletto, eh? Uno solo. Tanti auguri.

Sarebbe bene far sapere un paio di cose, a Paolo Crepet e a tutti i paladini della bocciatura, a tutti coloro persuasi che una scuola che boccia di più è per forza di cose una scuola migliore.

Prima cosa da far sapere: i paesi con le scuole migliori al mondo coincidono anche con i paesi in cui le bocciature sono praticamente azzerate. Che strano eh?

Seconda cosa da far sapere: i principali studi sul tema negli ultimi trent’anni sono concordi nel dire che solo in pochi casi la bocciatura serve da stimolo; solo entro certi limiti sprona gli studenti a far meglio. Per il resto, ogni bocciatura (specie in età più fragili come primaria e medie) crea danni a lungo termine, demoralizzazione e perdita di autostima, stigma e isolamento sociale. E infatti incide in maniera pesante sulla dispersione scolastica.

(a scanso di equivoci, vi cito le mie fonti in fondo)

No: bocciare non è la soluzione. È solo la risposta più facile. La meno coraggiosa.
La più coraggiosa?

Ammettere che quando tanti studenti arrivano non preparati il problema è a monte, perché le disparità si evidenziano già fra l’infanzia e la primaria. Ammettere che è stata la scuola a non prepararli, a non metterli in condizione di farcela. Ammettere che bisogna rimboccarsi tutti le maniche e offrire loro una scuola diversa, più stimolante, migliore, non bastonarli perché dentro una scuola che tira a campare coi quattro soldi che ha, che cade letteralmente a pezzi, senza riscaldamento, in classi con 30 studenti, non trovano le motivazione per studiare. Eddai.

Vogliamo denti più puliti in giro? Laviamoci i denti con loro con entusiasmo e investiamo in dentifrici e spazzolini, non in trapani.

ALCUNE FONTI:

Grade repetition: A comparative study of academic and non-academic consequences by Miyako Ikeda and Emma García* (2014)

Studio di Hanushek & Rivkin (2006)

Ricerca di Ladd & Fiske (2003)

L’AUTORE – Enrico Galiano sa come parlare ai ragazzi. In classe come sui social, dove è molto seguito. Insegnante e scrittore classe ’77, dopo il successo dei romanzi (tutti pubblicati da Garzanti)  Eppure cadiamo feliciTutta la vita che vuoiFelici contro il mondo, e Più forte di ogni addio, ha pubblicato un libro molto particolare, Basta un attimo per tornare bambini, illustrato da Sara Di Francescantonio. È tornato al romanzo con Dormi stanotte sul mio cuore, e sempre per Garzanti è uscito il suo primo saggio, L’arte di sbagliare alla grande. Con Salani Galiano ha quindi pubblicato la sua prima storia per ragazziLa società segreta dei salvaparole, un inno d’amore alle parole e alla lingua. Ed è poi uscito per Garzanti il suo secondo saggio Scuola di felicità per eterni ripetenti. Il suo ultimo romanzo è Geografia di un dolore perfetto (Garzanti).

Qui è possibile leggere tutti gli articoli scritti da Galiano per ilLibraio.it.

Fonte: www.illibraio.it

Chi è l’antieroe? Un viaggio nella storia della letteratura

Chi è l’antieroe e qual è il suo ruolo?

Personaggi grigi, ambigui, fragili, rancorosi, pavidi, vendicativi: gli antieroi sono questo e molto altro, eppure, per qualche motivo, spesso sono capaci di catturare il nostro favore e la nostra empatia più degli eroi della storia.

L’antieroe è una figura molto presente nel mondo della letteratura, del teatro, del cinema e del fumetto: le sue motivazioni complicate, le sue emozioni sfaccettate e i suoi pensieri contrastanti lo rendono un personaggio memorabile e di grande interesse.

Ma che cos’è esattamente un antieroe? Quale può essere il suo ruolo all’interno di una storia? Ripercorriamo l’evoluzione di questo tipo di personaggio attraverso alcuni esempi emblematici, provenienti dalla letteratura di ieri e di oggi.

Eroe vs antieroe

Un antieroe è, come suggerisce il nome, un personaggio che si contrappone alla figura canonica dell’eroe, per via di qualità opposte. Se l’eroe è valoroso, deciso, forte o generoso, l’antieroe è spesso calcolatore, volubile, incerto o individualista (se non egoista): gli mancano, insomma, tutte quelle caratteristiche morali, ideali e comportamentali che definiscono l’eroe.

La sua evoluzione nella storia della letteratura ha profondamente cambiato la figura dell’antieroe, rendendolo spesso più simile a una persona comune, con difetti e pregi. E proprio come ogni persona comune, difficilmente può essere riassunto da un solo ruolo o da una sola etichetta: per questo genere di personaggi non si tratta solo di distinguere tra bianco e nero – il più delle volte gli antieroi si aggirano nel mezzo, tra bene e male, in una moltitudine di sfumature.

Proprio per via di questa complessità interiore quello dell’antieroe è un modello molto utilizzato all’interno della narrazione, perché capace di movimentarla con scelte inaspettate e non convenzionali. Si fa portatore dei dubbi e delle incertezze tipicamente umani, compie errori e si redime, cade nella tentazione e (a volte) non è in grado di uscirne. Può accadere che l’antieroe assecondi comportamenti vendicativi, invidiosi o cinici, seguendo una sua logica non sempre giustificabile, ma solitamente comprensibile.

Le sue passioni, debolezze e speranze sono quindi al centro dell’attenzione dello scrittore, che li indaga con scrupolosità per catturare la sua unicità e, con essa, la comprensione e l’affetto del lettore.

Il fascino ambiguo dell’antieroe lo rende molto presente all’interno delle storie, il più delle volte anche come protagonista: la sua potenzialità è quella di costruire una narrazione verosimile e approfondita a livello psicologico, scardinando allo stesso tempo il modello (piuttosto irrealistico) dell’eroe senza macchia e senza paura.

Origine della figura dell’antieroe

Per quanto possa ora sembrarci moderno, sfaccettato e intrigante, tornando indietro all’epica greca l’antieroe sembra rispecchiare più fedelmente il suo nome, senza molte possibilità di rivalsa.

Uno degli esempi più antichi di antieroe è infatti Tersite, che all’interno dell’Iliade di Omero viene presentato come un uomo timoroso e vile, gobbo, zoppo e dall’aspetto sgradevole, appartenente all’esercito acheo. Il suo aspetto e la sua goffaggine, insieme al suo carattere pauroso, hanno la funzione di svilirlo e di esaltare ulteriormente la figura dell’eroe, bello, coraggioso e forte.

Tersite non è spaventato all’idea di criticare o deridere Agamennone e gli altri capi (il suo nome infatti, deriva da “insolenza, tracotanza”). Ma inevitabilmente viene punito per la sua sfrontatezza: nel libro II del poema, infatti, Tersite viene redarguito dal prode Odisseo, e messo brutalmente a tacere con un colpo di scettro.

Anche se non possiamo evitare di sentire nelle sue parole un fondo di verità, il primo esempio di antieroe non brilla certo per carisma, capacità o simpatia: il suo ruolo rimane vincolato alla presenza di un eroe a cui fare da contraltare. Altrettanto svilente e ridicola è la funzione di Dolone, il secondo antieroe dell’Iliade, questa volta appartenente alle fila dei troiani.

Nel corso della storia della letteratura, però, questa tipologia di personaggio ha cambiato aspetto e ruolo, acquisendo centralità nella storia.

Antieroe: alcuni esempi tra i classici della letteratura

Nel corso dei secoli scrittrici e scrittori hanno inserito nelle loro storie personaggi grigi, difficilmente inquadrabili dal punto di vista morale e comportamentale.

Molti di questi personaggi sono rimasti impressi nella mente dei lettori e delle lettrici proprio per via delle loro contraddizioni: vittime e allo stesso tempo artefici del loro tragico destino, è impossibile capire se amarli o odiarli, compatirli o criticarli.

Don Chisciotte

Un primo esempio di antieroe si trova nel primo romanzo europeo in senso moderno, Don Chisciotte della Mancia (1605) di Miguel de Cervantes.  Il suo protagonista è un hidalgo (ovvero un nobile) spagnolo: Alonso Quijano, grande appassionato di romanzi cavallereschi. “A forza di dormir poco e di leggere molto”, però, all’uomo “si inaridì il cervello al punto che perse il senno”: si convinse quindi di essere un cavaliere errante, don Chisciotte della Mancia, e cominciò a viaggiare per la Spagna con il suo scudiero, Sancio Panza.

Don Chisciotte non diventa mai l’eroe che tanto vorrebbe essere: le sue imprese falliscono una dietro l’altra, e nella sua follia trasforma in minacciosi nemici persino dei comuni mulini a vento. Tra litigi, duelli e battute, il povero don Chisciotte combatte furiosamente contro una realtà che non lo riconosce, e il suo ardore non riesce a rivolgersi verso nessun vero nemico.

Don chisciotte della mancia Miguel de Cervantes l'antieroe

È soprattutto durante l’Ottocento, però, che l’antieroe inizia a lasciare il segno nella letteratura, attraverso trame e declinazioni sempre diverse.

Il Conte di Montecristo

Il Conte di Montecristo (1844) di Alexandre Dumas, per esempio, rappresenta un personaggio enigmatico, diviso tra luci e ombre. La lealtà e la fiducia che un tempo caratterizzavano il giovane Edmond Dantès, promettente marinaio della nave Pharaon, vengono prosciugate dal desiderio di vendetta e dal ricordo del male subito. Accusato ingiustamente di essere un bonapartista, Dantès rimane prigioniero per 14 lunghi anni, progettando la sua rivalsa contro coloro che lo hanno tradito. Una volta libero, Dantès costruisce attorno a sé la figura cupa, solitaria e misteriosa del Conte di Montecristo, volto spietato dietro cui si nasconde la sua sete di vendetta.

Copertina de Il conte di Montecristo Alexandre Dumas, che mostra la figura dell'antieroe

Cime tempestose

Passando a Cime tempestose (1847) di Emily Brontë, Heathcliff e Catherine Earnshaw sono due personaggi tanto iconici quanto ambigui e complicati. Da un lato abbiamo Catherine, una donna graziosa, appassionata e vitale, ma anche impulsiva e capricciosa; dall’altro troviamo Heathcliff, prima un giovane sempliciotto e poi un uomo affascinante e letale, animato da un antico rancore. L’amore che lega i due personaggi è altrettanto contraddittorio – bruciante e proibito, nato in giovane età ma destinato a non compiersi fino alla morte.

Madame Bovary

Ritornando in Francia, Madame Bovary (1856) di Gustave Flaubert descrive con minuziosità un’antieroina e la sua drammatica vicenda. La giovane Emma Bovary sogna una vita agiata, ricca di avventura e passione, complici anche le letture romantiche con cui cerca di evadere dalla monotonia. Il suo personaggio rappresenta la ricerca tipicamente umana della felicità, ma allo stesso tempo anche l’incapacità di scendere a patti con la realtà, comprendendo le conseguenze delle proprie azioni. Nella smania di ottenere ciò che desidera, Emma trascina se stessa e la sua famiglia in un vortice distruttivo, tramutando la sete di libertà in un senso di oppressione crescente.

madame Bovary di Gustave Flaubert l'antieroe

Il ritratto di Dorian Gray

Avvicinandoci alla fine del secolo, Il ritratto di Dorian Gray (1890) dello scrittore irlandese Oscar Wilde è uno dei romanzi che mostra in maniera più potente il processo di corruzione del protagonista. All’inizio del romanzo Dorian Gray viene presentato come uno splendido ragazzo, dall’animo gentile e ingenuo, spinto però dalla sua vanità a desiderare di rimanere per sempre bello e giovane. La sua richiesta si esaudisce inaspettatamente: non solo il suo magnifico ritratto invecchia al posto suo, ma è anche in grado di prendere su di sé tutte le sue colpe e i suoi peccati, permettendogli di scivolare sempre di più in una vita dissoluta e corrotta. Continuamente braccato dal terrore che qualcuno possa scoprire lo stato della sua anima, l’orribile dipinto diventa per Dorian un tormento di cui non riesce a fare a meno, tra rimorso e cinismo, fino all’autodistruzione.

La coscienza di Zeno

Scavallando il Novecento, l’antieroe assume delle forme peculiari, come nel caso del protagonista de La coscienza di Zeno (1923) di Italo Svevo: un “inetto“, un individuo debole e incapace di vivere appieno. Come i protagonisti degli altri romanzi dell’autore triestino, Una vita (1892) e Senilità (1898), Zeno Cosini non è in grado di uniformarsi alla società. La sua psicologia viene indagata attentamente, con particolare attenzione per le sue tendenze nevrotiche e i suoi auto-inganni, che inevitabilmente lo conducono a soccombere davanti alla vita. L’inetto è l’espressione moderna di un antieroe fragile e articolato, in cui è impossibile non rivedere un po’ delle nostre stesse paure.

La coscienza di zeno di Italo Svevo l'antieroe

Il fu Mattia Pascal

Tornando un po’ indietro, al 1904, Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello rappresenta similmente un antieroe incapace di integrarsi alla realtà. Mentre è in fuga dalla sua vita asfissiante, Mattia Pascal legge il suo necrologio, scoprendo che sua moglie e la suocera lo credono morto. È così che decide di crearsi una nuova identità: prende il nome di Adriano Meis e si trasferisce a Roma, incredulo e euforico all’idea di poter ricominciare da zero. La libertà tanto agognata, però, ben presto lo intrappola in un’esistenza che non può assaporare appieno, essendo “vivo per la morte e morto per la vita”.

Il personaggio di Mattia (il cui nome, come ci ricorda il narratore, rievoca una persona un po’ matta) è un antieroe bislacco, un uomo insoddisfatto, senza certezze né obbiettivi, capace di amore ed empatia, ma anche di azioni impulsive. Il suo tentativo di rinascita in Adriano Meis va a vuoto, rendendogli però impossibile tornare indietro: non sapendo più chi egli sia, non può far altro che riconoscersi, semplicemente, ne “Il fu Mattia Pascal”.

Il grande Gatsby

Pubblicato per la prima volta nel 1925, Il grande Gatsby è il romanzo più noto dello scrittore statunitense Francis Scott Fitzgerald, e presenta al lettore un personaggio tragico quanto affascinante. Jay Gatsby è un uomo ricco e influente, che nella sua villa a Long Island ospita feste grandiose e scintillanti, eventi mondani che attirano persone da tutta New York. Dietro al suo aspetto spavaldo, però, Jay Gatsby nasconde il ricordo di un amore lontano, e un passato molto diverso da quello che cerca di ostentare. Gatsby crede di poter riottenere la donna che ama, ma la sua illusione si infrange in un lampo. La sua vita si rivela un’immensa e amara finzione, la storia di un uomo appassionato e brillante, ma destinato a rimanere solo anche in mezzo a un mare di persone.

Il grande gatsby

Il giovane Holden

Concludiamo questa lista (che sicuramente potrebbe comprendere molti altri nomi) con Il giovane Holden di J.D. Salinger (Einaudi, traduzione di Matteo Colombo). Pubblicato negli Stati Uniti nel 1951, il protagonista di questo romanzo è Holden Caulfield, un antieroe unico nel suo genere: ha sedici anni, i capelli tendenti al grigio, un’interesse molto altalenante per lo studio e un’incredibile propensione a esprimersi attraverso parolacce e formule ripetute. Holden è stato espulso dalla sua scuola, ma per non farlo sapere ai genitori girovaga per New York, prendendo poche decisioni accorte e facendo ancora meno incontri felici.

Nonostante si presenti come “il più fenomenale bugiardo che abbiate mai incontrato”, Holden sembra mostrarci la realtà con occhi sinceri, attraverso una sensibilità e un’intelligenza che potrebbero sorprendere. Holden è un ragazzo alla ricerca del suo posto nel mondo, scostante, sprezzante e senza filtri come sono spesso gli adolescenti. Non solo Holden Caulfield sa di non essere un eroe, ma non gli interessa neppure diventarlo, dando forma a un romanzo di formazione unico nel suo genere.

Il giovane Holden

Fonte: www.illibraio.it