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La nostra Africa di Michelangelo Bartolo

di
Stefano Costa
Stefano Costa (i-Libri) recensisce "La nostra Africa di Michelangelo Bartolo" e intervista l’autore

Il corposo volume “La nostra Africa”, più di 400 pagine di viva testimonianza di lotta all’Aids, può esser letto in un soffio, in un gesto leggero; non esagero nel dire che può esser letto ridendo. Tutto è reso possibile grazie all’intelligenza dell’Autore che ne ha fatto sì qualcosa di lungo, ma anche di penetrante, di divertente, di mai banale.

Il libro ripercorre le tappe più significative dell’affermarsi del programma di cura DREAM (Drug Resourse Enhancement against Aids and Malnutrition) della Comunità di Sant’Egidio in collaborazione con le autorità sanitarie locali africane, ed è suddiviso in tre parti contestualizzate in via spazio-temporale: la prima, Mozambico (2001-2006); la seconda, Tanzania (2005-2010); la terza, Africania (2009-2011). I dati, le statistiche li lascio al lettore che potrà consultarne ogni più piccolo aspetto disseminato nel testo e racchiuso in una breve appendice finale.

Questa suddivisione strutturale organizza una lettura “a campi” e introduce il lettore passo passo nell’universo africano, un universo che già s’indovina sfidante, logorante sin dalle prime pagine. La narrazione è condotta con andamento progressivo e segue, com’è naturale che sia, il continuo miglioramento del DREAM che minuto per minuto, giorno per giorno, macina risultati positivi nel curare sempre più malati di Aids, nello strappare alle braccia della morte persone già “condannate” e rigettate da comunità locali ancora non in grado di accettare “il malato” in quanto essere umano.

Colpisce la forza con cui medici, infermieri, volontari a vario titolo si scontrano con una burocrazia che definire kafkiana non è fuori luogo, a tratti appare questo il lato più duro. Curare il malato è difficile, sembra dirci l’Autore, ma più difficile ancora è combattere non contro il nemico bensì contro l’amico, contro colui che potrebbe aiutarti, che avrebbe i mezzi e l’autorità per farlo.

Innumerevoli sono, a tal proposito, gli episodi che s’incontrano nel libro: dai surreali colloqui con chi dovrebbe sbloccare, dalla zona porto, un container di macchinari per la creazione di un laboratorio di Biologia Molecolare (siamo in Mozambico), agli incalcolabili ammiccamenti di funzionari che agiscono solo a suon di mazzette, di allowance, come qui vengono chiamate (siamo in tutto il continente).

L’Africa accoglie il lettore mostrandogli due volti. Il primo è quello lento, labirintico; è l’Africa dei funzionari pubblici, quella dove gli incontri ufficiali con autorità politico-amministrative durano ore e ore… ma sono solamente ore d’attesa. L’Autore è chiamato a sopportare interminabili preamboli, lunghissime ore aspettando il funzionario di turno che non arriva mai, e che quando arriva liquida ogni problematica con poche parole, precedute sempre da un “but” in grado di tagliare le gambe alla più tenace speranza. È questa l’Africa esasperante, quella che ti viene in contro da lontano, da distanze siderali.

«Con il tempo ho capito una cosa: chiunque [in Africa] può fare un’obiezione e fermare o rallentare la tua pratica, ma nessuno ha il vero potere di mandarla avanti. Nessuno, neanche il ministro, che ha un rispetto spropositato per il parere del più piccolo direttore locale.» (pag.370)

Queste parole fanno a pugni con l’altra Africa, quella che compare all’improvviso e ha, non può essere che così, i volti dei bambini (già, tipo quelli delle pubblicità in televisione) in grado di comunicare con un corpo, il loro, devastato sia dalla malattia sia dalla violenza. Sono mani che lasciano le loro impronte sui finestrini delle auto che scortano i bianchi, sono mani che chiedono solo quando capiscono che qualcuno può dare, sono mani che cercano un contatto, che hanno disimparato a giocare con gli adulti. Toccanti, a questo proposito, i molti ritratti che costellano le testimonianze del libro e che è inutile anticipare in questa sede, togliendo al lettore il gusto dell’imparare. Sì, dell’imparare dal gesto più banale, più spontaneo… dell’imparare dalla testimonianza di chi quest’universo l’ha combattuto e aiutato contemporaneamente.

Si diceva Mozambico, Tanzania, Africania. Quest’ultimo Paese è chiaramente luogo simbolico e concreto insieme, specchio di un’Africa tutta che non sta solo sulle cartine geo-politiche ma anche nell’esperienza del volontario, di colui che ha deciso di scrivere per testimoniare racchiudendo in un’ultima partizione dell’opera un’esperienza simbolica, in grado di “tirare le somme”, di snocciolare dati. Già dati, statistiche, cifre: un consiglio al lettore è quello di non cadere nel luogo comune del: “i numeri non trasmettono passione”. Bisogna leggere questi numeri, è necessario incamerarli facendone esperienza, perché s’impara anche da quelli, s’impara anche dal lato più freddo e meno passionale quando si parla di Africa e di programmi di cura.

Un libro che s’aggiunge a una letteratura già vasta, ma che conserva la forza dell’unicità e che in quest’ottica va studiato.

Chiudo con uno sguardo al tratto distintivo del libro, quello dell’ironia. All’inizio di queste righe scrivevo che si ride, nel leggere questo libro. Infatti ogni pagina, contrariamente a quanto si può pensare prima d’iniziare a leggere, è pervasa da un forte umorismo. Ogni colloquio è spia per nuove battute di spirito; ogni parola, ogni gesto generano una situazione linguistica spiazzante. Stupisce la cosa? No, non stupisce. O meglio, non stupisce il lettore intelligente in grado di capire che quest’ironia nasce per esorcizzare il Male (con la Maiuscola), nasce perché chi vuole aiutare l’Africa ha bisogno di rimanere lucido, di non lasciarsi distruggere a sua volta. Non stupisce, perché questa è l’ironia di chi ha sofferto e che solo chi ha sofferto può permettersi d’adottare.

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