È iniziato il conto alla rovescia per la fruizione gratuita del webinar sulla scrittura

Dal 10 aprile non sarà più possibile accedere gratuitamente al webinar sulla scrittura nel quale Federica Manzon, direttrice editoriale di Guanda, e Gian Andrea Cerone, scrittore di noir di successo, svelano alcuni segreti del dietro le quinte del lavoro editoriale, in una lezione che spiega gli elementi fondamentali che fanno la differenza tra lo scrittore dilettante e il professionista o, in altre parole, tra un romanzo impubblicabile e uno pubblicato.

Come iniziare un romanzo? Che voce narrante usare? Quali personaggi far entrare in scena? Come strutturare i dialoghi? Quali gli errori più comuni da evitare?

Se volete ascoltare la risposta a queste e a tante altre domande, registratevi qui e seguite un webinar imperdibile per chi ha già scritto un romanzo e magari ha qualche dubbio, per chi ha solo un’idea in testa e vuole svilupparla al meglio, per chi ama leggere, per chi è semplicemente curioso di conoscere meglio il mondo editoriale.

Attenzione: c’è tempo fino alla mezzanotte del 10 aprile: non perdetelo!

Daniel Pennac e Stefano Bartezzaghi: “Le parole fanno il solletico” (e anche molto altro)

Stile alto, stile medio, stile basso: era il Medioevo quando si diffondeva questa tripartizione degli stili influenzata dalla retorica classica, che avrebbe poi segnato per secoli la letteratura occidentale.

In poche parole, secondo la distinzione dell’epoca, sarebbe stato opportuno utilizzare un registro più aulico per affrontare temi religiosi, filosofici ed epici, o comunque di una certa caratura; un registro medio per argomenti più comuni, possibilmente legati alla sfera dei sentimenti; e un registro più popolare nel caso di farse, satire o contenuti ispirati alla vita quotidiana, spesso legati alla dimensione più sensoriale dell’esistenza.

Ma cosa succederebbe se con stili e generi si giocasse e sperimentasse, contravvenendo volutamente a ogni indicazione di massima per poterla ribaltare, superare e mettere in discussione?

La risposta è nascosta (ma forse poi neppure troppo) fra le righe di capolavori ingegnosi e trascinanti come la Divina Commedia di Dante Alighieri, Gargantua e Pantagruel di François Rabelais, Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes, Frankenstein di Mary Shelley, La signora Dalloway di Virginia Woolf, Amatissima di Toni Morrison

…e nel suo “piccolo”, in una delle sue varianti più recenti, nel nuovo libro scritto a quattro mani dal pluripremiato autore e docente francese Daniel Pennac e dal noto semiologo, scrittore e giornalista Stefano Bartezzaghi, che insieme hanno dato vita a Le parole fanno il solletico (Salani, con Yasmina Mélaouah).

Copertina del libro Le parole fanno il solletico di Daniel Pennac e Stefano Bartezzaghi

 

A prima vista, infatti, il loro sembrerebbe un testo paradidattico per l’infanzia, o un divertissement per chi (anche da più grande) ama la lingua italiana al punto da volerne rispolverare le espressioni idiomatiche.

Sì, perché il guizzo alla base de Le parole fanno il solletico consiste nel raccontarci attraverso l’uno o l’altro aneddoto inventato il retroscena di una frase fatta che magari usiamo tutti i giorni, o che invece ha senso solo in francese e che si rivela a noi per la prima volta: storielle sagaci con protagonisti ora adulti e ora bambini, che si muovono sempre al confine tra il linguaggio proprio e quello figurato.

Così facendo il volume passa in rassegna ben cinquanta modi di dire, la cui caratteristica è sempre quella di fare riferimento al corpo umano. Rimangiarsi la parola, buttare un occhio, avere il cuore in gola, spaccare il capello in quattro: tutti casi in cui basta interagire con una zia di nome Frignola, un bel micione o una pianta filippina per guardare il mondo da un’irresistibile prospettiva laterale.

Anche se in realtà, pur trattandosi di un’operazione che scompone la lingua per osservarla meglio, posizionando in primo piano i nostri aspetti più fisici e tangibili con aria sempre sorniona, sbaglieremmo a basarci solo su una rigida tripartizione degli stili e a descriverla frettolosamente come un’opera buffa.

Le parole fanno il solletico non è infatti un testo comico, e non è nemmeno un testo semplice o alla portata di chiunque: potremmo al massimo definirlo umoristico, nell’accezione più pirandelliana del termine, e per certi versi immediato – nel senso di non mediato, di scomposto, di fulminante.

Ma resta il fatto che il suo intento è quello di disorientarci e di stupirci, di coinvolgerci e di spingerci a riflettere, analizzando uno degli strumenti più complessi a nostra disposizione, e cioè il linguaggio, in tutte le sue connotazioni, le sue allusioni e la sua rete di riferimenti impliciti, qui peraltro illustrati con ponderata irriverenza dalla mano di Francesca Arena.

Un'illustrazione di Francesca Arena per il libro "Le parole fanno il solletico", che rappresenta Beethoven circondato da una campana, per indicare che fosse molto sordo Ludwig van Beethoven, rappresentato sordo come una campana

Come approcciarci alla lettura, dunque, e come interpretare quello che sembra essere il legittimo erede di due illustri genitori, ovvero Bianca Pitzorno con il suo Parlare a vanvera (Mondadori) e Raymond Queneau con il suo Esercizi di stile (Einaudi, traduzione di Umberto Eco e postfazione – udite udite – di Stefano Bartezzaghi), madre e padre a loro volta (e forse non per caso) di origine italiana e francese?

Innanzitutto, dovremmo tenere a mente che il nostro corpo ha smesso da tempo di essere un tabù, e che sviscerando meglio ciò che è massa, carne, istinto e materia potremmo arrivare a conclusioni di grande raffinatezza e impatto intellettuale, dopo aver errato tra insolite associazioni d’idee e curiose riscoperte semantiche:

A Lollo i conti non tornano.
«Comunque è curioso» commenta, «dire a qualcuno che non ha fame: ‘mangi come un uccellino’. Ma non l’hanno mai visto, un uccellino? Quelli non fanno altro che mangiare. Prendiamo i passeri. Ne avete mai visto uno leggere? Mai. Andare in bicicletta? Mai. Lavorare in cantiere? Mai. Sono troppo occupati a mangiare».

In secondo luogo, dovremmo accogliere la possibilità che mescolare l’alto e il basso, il sacro e il profano, non sia né un vezzo né un vizio, quanto piuttosto la scappatoia più disinvolta per raccogliere quel che di più interessante hanno da offrirci la solennità e la trivialità.

Del resto, se ci limitassimo a trovare in un’opera letteraria ciò che ci aspettavamo, ciò che in parte avevamo già intuito o che credevamo facesse al caso nostro, non attraverseremmo davvero la storia che contiene, finendo per non considerarla poi tanto efficace.

Le mancherebbe la forza di coglierci alla sprovvista, un po’ come si fa con i fiori di campo, e di strapparci via dalle consuetudini, piantando nella nostra memoria un seme in grado di germogliare ancora e ancora, scavando sentieri inediti tra i nostri stati d’animo e le nostre convinzioni

«In Italia voi non dite ‘tirare fuori i vermi dal naso’?»
«Casomai diciamo i ‘capperi’ o i ‘fichi’, ma non abbiamo bisogno dei poliziotti per estrarli».
«Ma no, in Francia lo diciamo in linguaggio figurato! Significa far dire la verità a qualcuno che non vuole».
«Ah, ecco. In italiano i colleghi del cugino Freddy non tirano fuori vermi dal naso ma fanno sputare il rospo».
«Fa schifo anche quello».
«Più che altro fa schifo l’idea di averlo mandato giù, il rospo! A quel punto tanto vale sputarlo».

E, in ultimo, dovremmo fidarci del fatto che – con la sua creatività – Le parole fanno il solletico abbia qualcosa di importante da suggerire perfino alla nostra, di immaginazione.

Potremmo pensare di saperla tenere già abbastanza allenata, ma non è detto che l’estro scatenato di due grandi giocolieri della parola non riesca a darle nuova linfa, anche perché è proprio dalle commistioni più atipiche e azzardate che possono prendere forma, a catena, tante altre suggestioni.

Un esempio emblematico, di cui neppure i due autori potrebbero essersi resi conto fino in fondo? Il titolo stesso.

Il suo richiamo all’aspetto più linguistico e a quello più scherzoso del testo è infatti evidente, come pure il rimando alle espressioni idiomatiche che hanno attinenza con la corporeità, e su questo siamo d’accordo.

Ma avevate notato che perfino solleticare è un verbo che si usa a sua volta in senso figurato, come sinonimo di stuzzicare o di stimolare?

Che cosa? Ma la fantasia, ça va sans dire!

All’inizio non ce la posso proprio fare. Mi dico che sono del tutto idiota, che ho la testa vuota e il cuore di pietra, non ho fegato e non ho polso, nessuna fantasia, niente da dire, raccontare, condividere. Da piccolo era lo stesso, coi temi. Restavo ore sopra il foglio bianco, con la testa fra le mani, a non scrivere niente. Poi alla fine andava sempre così: mi cadeva dal naso una prima goccia d’inchiostro, poi una seconda, poi una terza e allora riuscivo a cominciare a scrivere…

Fonte: www.illibraio.it

“L’inizio è tutto”, un webinar gratuito

“Era una notte buia e tempestosa…” Chi non ricorda l’incipit tormentone del grande romanzo americano che scrive Snoopy, il bracchetto più famoso del mondo, nato dalla fantasia di Schulz? Ecco, ci sono tanti modi, e sicuramente migliori, di iniziare un romanzo, e questo webinar vi racconterà quali.

Federica Manzon, direttrice editoriale di Guanda, e Gian Andrea Cerone, scrittore di noir di successo, sono pronti a svelare alcuni segreti del dietro le quinte del lavoro editoriale, in una lezione che spiega gli elementi fondamentali che fanno la differenza tra lo scrittore dilettante e il professionista o, in altre parole, tra un romanzo impubblicabile e uno pubblicato.

Come iniziare un romanzo? Che voce narrante usare? Quali personaggi far entrare in scena? Come strutturare i dialoghi? Quali gli errori più comuni da evitare?

Se volete ascoltare la risposta a queste e a tante altre domande, registratevi qui e seguite un webinar imperdibile per chi ha già scritto un romanzo e magari ha qualche dubbio, per chi ha solo un’idea in testa e vuole svilupparla al meglio, per chi ama leggere, per chi è semplicemente curioso di conoscere meglio il mondo editoriale.

Frasi sulla primavera, alcune fra le più belle tratte dalla letteratura

Colori, suoni, emozioni: ogni anno, quando ritorna la primavera, sembra che li riscopriamo per la prima volta dopo un tempo immemorabile, come se la stagione fredda che ci siamo appena lasciati alle spalle fosse durata un’eternità.

Ed ecco che ci ritroviamo d’un tratto pieni di energie, pervasi dal buonumore, e soprattutto grati alla natura per la possibilità che abbiamo di vederla sbocciare nuovamente, accompagnandola verso una rinascita che forse, sotto sotto, è un po’ anche la nostra.

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Per celebrare il suo ritorno e per riscoprirne la bellezza prendendo in prestito le parole degli scrittori e delle scrittrici che ci hanno preceduto, ecco allora alcune delle frasi più belle sulla primavera tratte dalla letteratura, in una selezione che va da Rainer Maria Rilke a Emily Dickinson, passando per Lev N. Tolstoj e per Anne Bradstreet

Impossibile non prendere le mosse da Alda Merini (1931-2009), la poetessa milanese nata proprio nel giorno dell’equinozio di primavera – a cui non a caso ha dedicato un’evocativa poesia dal titolo Sono nata il ventuno a primavera, che è tratta da Il suono dell’ombra. Poesie e prose (1953-2009) (Mondadori, a cura di Ambrogio Borsani) e che inizia così:

Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.

Una delle frasi sulla primavera di Alda Merini

Altrettanto suggestivi sono poi i versi del poeta tedesco Rainer Maria Rilke (1875-1926), il quale nei suoi Sonetti a Orfeo (Garzanti, traduzione di Rina Sara Virgillito) ne scrive uno contenente una di quelle frasi sulla primavera che, nella loro semplicità, sarebbero però capaci di affascinare e sorprendere chiunque. Ci riferiamo al Sonetto 1, XXI, che si apre come segue:

Ritorna primavera. Ed è la terra
come un bimbo che sa le poesie.

Se tanta meraviglia per la bella stagione sembra pervadere gli intellettuali di tutto il mondo e di tutte le epoche, la poetessa inglese Anne Bradstreet (1612-1672) – la prima a essere vissuta nelle colonie americane dell’Inghilterra e a pubblicare le sue opere – ci tiene a ricordarci in un breve passo contenuto in Meditations Divine and Moral (testo edito negli Stati Uniti nel 1664) che:

Se non ci fosse l’inverno, la primavera non sarebbe così piacevole.

Una delle frasi sulla primavera di Anne Bradstreet

Come dicevamo all’inizio, infatti, anche se servono interi mesi di preparazione affinché la terra possa tornare rigogliosa, la percezione comune è che la primavera ci colga sempre impreparati, come in Anni con mio padre (Jouvence, prefazione di Daniel Gilles) la memorialista Tat’jana L. Tolstoj (1864-1950), figlia di Lev N. Tolstoj (1828-1910), ci racconta che un giorno osservò suo padre:

Fatta una passeggiata a cavallo… Primavera straordinariamente gradevole. Ogni volta non riesco a credere ai miei occhi. È possibile che tutta quella bellezza nasca dal niente?

A quanto pare, peraltro, ciò che scriveva Tolstoj non solo è possibile, ma accade più spesso di quanto potremmo immaginare. A darcene conferma sono i versi di Un chimico, un brano musicale che, essendo stato composto da un cantautore del calibro di Fabrizio De André (1940-1999), potremmo comunque inserire nel novero delle frasi sulla primavera tratte dalla letteratura:

Primavera non bussa, lei entra sicura,
come il fumo lei penetra in ogni fessura.
Ha le labbra di carne e i capelli di grano:
che paura, che voglia che ti prenda per mano!
Che paura, che voglia che ti porti lontano… 

Una delle frasi sulla primavera di Fabrizio De André

Del resto, nonostante i segnali che la annunciano siano sempre uguali, ogni primavera ci infonde un benessere diverso dal solito, coinvolgendoci come se fosse la prima volta e come se anche per noi si preannunciasse una nuova vita, proprio come notava nel 1931 l’autore inglese Theodore Francis Powys (1875-1953) nel suo Il mietitore di Dodder (Mondadori, traduzione di Elio Vittorini):

La primavera è sempre, a tutti, una rinascita.

Per questo, probabilmente, il noto scrittore brasiliano Paulo Coelho (Rio de Janeiro, 1947) è convinto che la speranza e la primavera siano una cosa sola, e che l’arrivo della bella stagione possa portare con sé una freschezza e una forza nuove, capaci di risollevarci gradualmente dall’eventuale torpore del nostro inverno, come scriveva nel 2010 nel romanzo L’Aleph (La Nave di Teseo, traduzione di Rita Desti):

Quando ci sentiamo deboli, tutto ciò che dobbiamo fare è aspettare un po’. La primavera torna, le nevi dell’inverno si sciolgono e le loro acque ci infondono nuova energia.

Una delle frasi sulla primavera di Paulo Coelho

E concludiamo con un’altra poesia, stavolta in senso stretto, dedicata a sua volta alla stagione dei fiori: si chiama A ogni incontro con la primavera ed è frutto dell’ingegno della scrittrice inglese Emily Dickinson (1830-1886), nella cui raccolta Poesie (Bompiani, traduzione di Ariodante Marianni) non mancano le toccanti impressioni ispirate proprio al miracolo della natura:

A ogni incontro con la primavera
non so star quieta – sorge il desiderio
antico, un’ansia mista ad un’attesa
una promessa di bellezza
e una gara di tutto il mio essere
con qualcosa che in essa si nasconde.

Fonte: www.illibraio.it

 L’INCIPIT, ovvero chi ben comincia…


«L’ultima cosa che si trova scrivendo un’opera è quella da mettere per prima.» Pascal

Come si cattura l’attenzione del lettore? Quando è meglio scrivere l’incipit? Quanti tipi di incipit conoscete?

L’incipit, cioè l’inizio, le prime righe del libro, deve catturare il lettore, conquistarlo e spingerlo a proseguire la lettura.

Tutti conosco l’incipit tradizionale per eccellenza, quel “c’era una volta…” che è capace ancora oggi di attirare l’attenzione, in attesa di sapere che cosa viene dopo.

Ecco, l’incipit deve conquistare, portarci subito a volere sapere che cosa “c’era una volta…”

Le buone notizie sono: 1) che l’incipit si può scrivere (o ri-scrivere) alla fine del romanzo, così da sistemarlo al meglio e 2) che gli addetti ai lavori, gli editor della case editrici, nel valutare il manoscritto sapranno con pazienza andare al di là delle prime righe, per cogliere il potenziale del romanzo. Vale comunque la pena di scrivere un buon incipit; è il primo sguardo in una stanza segreta, la prima nota di una canzone che non uscirà più dalla testa.

Segnatevi gli incipit belli di romanzi poi rivelatisi brutti che avete letto; e segnatevi anche gli incipit brutti di romanzi poi rivelatisi belli.

  • Analizzateli: che cosa non ha funzionato in quelli brutti? Viceversa, che cosa vi ha tratto “in inganno” di quelli belli?
  • Provate a riscrivere gli incipit a vostro parere brutti.
  • Provate a immaginare tre incipit diversi per il vostro romanzo: uno descrittivo, che introduca il lettore nei luoghi del romanzo (avete presente: “Quel ramo del lago di Como…”?); uno che inizi con una citazione  epigrammatica (ricordate: “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”?); uno che inizi dalla fine (un esempio per tutti: “Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio.”).