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"L’ultima primavera di Kronenberg": il rapporto allievo-maestro nel romanzo di Marco Lazzarin

2 Aprile 2024 |
di
Redazione Il Libraio
"L’ultima primavera di Kronenberg", esordio di Marco Lazzarin, mostra che dietro a ogni scrittore c’è un uomo. In questo caso, un uomo con un segreto, che non vuole svelare. Jacopo conosce a memoria i romanzi del famoso Lionel Kronenberg, e proprio da questa passione nasce il desiderio di scrivere. Un sogno che, purtroppo, deve richiudere nel cassetto, infranto da un brutto scherzo che gli ha giocato la vita. Ma tutto cambia quando si trova a fare da accompagnatore allo scorbutico autore durante un festival letterario... - Su ilLibraio.it un estratto dal romanzo

Jacopo conosce a memoria i romanzi del famoso Lionel Kronenberg, e proprio da quella passione è nato il desiderio di diventare uno scrittore. Un sogno che, purtroppo, ha dovuto richiudere nel cassetto, infranto da un brutto scherzo che gli ha giocato la vita…

Così, quando si trova a fare da accompagnatore a Kronenberg durante un festival letterario non ha grandi aspettative: è solo felice di poterlo incontrare. Ma lui si rivela scorbutico e poco cordiale. Sembra che nulla possa abbattere le sue difese, neppure la profonda ammirazione che Jacopo gli dimostra.

L’ultima primavera di Kronenberg, esordio di Marco Lazzarin (Garzanti), mostra però che dietro allo scrittore c’è un uomo. Un uomo con un segreto che non vuole svelare. Perché anche chi vive di parole può decidere di utilizzarne solo alcune, consegnandone altre all’oblio. Eppure, raccontare le proprie storie, a volte, non è un atto consapevole, ma un bisogno primordiale. Un istinto che infrange ogni barriera. L’unico modo per dare un senso al caos della realtà.

Kronenberg non si aspettava che accadesse proprio in quel momento e Jacopo non era pronto a essere travolto da quel tornado di verità. Ora non gli resta che riprendere in mano la penna e affrontare la parte più nascosta di sé: solo così può imparare a vivere. Ma ci vuole coraggio. Il coraggio di un bravo autore. Solo così può nascere un capolavoro…

L’autore – insegnante di inglese nato nel 1987 – realizza un esordio che affonda le mani nel processo creativo che attinge dalla vita reale. Una finestra aperta sugli angoli più reconditi dell’anima. Un inno al potere della scrittura, che può essere un dono e al contempo un fardello. Ma che rende unici.

L'ultima primavera di Kronenberg di Marco Lazzarin

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto del libro:

VENEZIA

Alla mia prima lezione d’università – era un lunedì di fine settembre, in un’aula bassa e oblunga, un vecchio magazzino messo a nuovo per ospitare noi studenti – mi ritrovai di fronte a Irene Zorzi: giovane professoressa di letteratura inglese dalla curiosa capigliatura asimmetrica, un’insegnante piena di brio, mossa da una spiccata vivacità intellettuale e un ribollente entusiasmo per le nostre menti impressionabili. La sua intenzione per quel primo semestre – disse quel giorno, dopo un mare di informazioni e di consigli – era di renderci professionisti della lettura, o meglio, persone in grado di leggere sul serio, che significava non solo essere capaci di capire e dissezionare un testo in ogni suo dettaglio, ma sopra ogni cosa di saper cogliere quel nucleo di umanità che si cela tra le parole e le pagine di ogni buon romanzo – cos’altro potevo chiedere? Mancavano venti minuti alla fine della lezione quando scrisse l’incipit di Pride and Prejudice alla lavagna, e mostrò a noi novizi cosa intendeva: iniziò a smontare quel breve paragrafo frase per frase, fermandosi su ogni possibile connotazione di ciascuna parola, e dedusse così le questioni chiave del romanzo da una mera manciata di righe. Rimasi estasiato di fronte a quelle sue capacità e, sin da subito desideroso di essere preso sotto la sua ala, non ci misi che pochi giorni per trovare il coraggio di sottoporre i miei racconti al suo sguardo severo di professionista della lettura.

«Ci sono molti problemi qui», mi disse con franchezza, tenendo in mano i fogli che la settimana prima le avevo consegnato alla fine di una lezione. Non fui sorpreso: avevo perso la speranza che avesse una buona parola sulle mie pagine sin da quando ero entrato nel suo studiolo buio e avevo visto la sua espressione insoddisfatta – eppure il fallimento era dolce, perché per la prima volta sentivo che qualcuno prendeva sul serio quella mia immaginazione che da anni rispondeva alla necessità inspiegabile di mettere in parole una realtà alternativa che non solo avesse senso, ma che avesse pure un briciolo del potere che trovavo nei romanzi e racconti che adoravo. Dedicò solo poche frasi alle mie incapacità di caratterizzazione, all’improbabilità psicologica dei miei personaggi, al mio lirismo forzato, come se tutto ciò fosse scontato, e passò invece quasi mezz’ora a dissezionare alcuni errori che ingenuamente mi sembravano minuzie. «Non può, e ripeto, non può», mi disse, «sostituire una parola con un’altra a piacimento. Deve rendersi conto che ognuna di esse, anche la più piccola, ha il suo significato e lei non può permettersi di abusarne. È suo dovere prestare attenzione a queste cose. Altrimenti è solo fiction mediocre. Ha mai sentito parlare del mot juste? Bene, vada a guardare cos’è, e se lo fissi in mente. Dev’essere il suo primo comandamento. Non può permettersi di mancare di rispetto alle parole – sono la sua materia prima. Non ci pensi neanche a darmi robaccia del genere la prossima volta.» Le pagine che aveva letto erano tanto brutte, a parer suo, che era meglio mettere da parte tutto ciò che avevo scritto fino a quel momento e cominciare a lavorare su nuove idee, partendo da ciò che stavo imparando a lezione e dagli errori che mi aveva appena fatto notare. La cosa importante, intanto, era che ci sarebbe stata una prossima volta.

Passò poi a chiedermi cosa leggevo, una domanda che sembrava essere più importante di qualsiasi altra. «Insomma», disse, «come può immaginare di scrivere bene, se non legge bene libri scritti bene? Per poter scrivere deve prima di tutto saper leggere, penso che questo le sia chiaro ormai.» Evitai di menzionare la mia vasta conoscenza della Terra di Mezzo, e feci invece i nomi degli scrittori con i quali più volevo identificarmi: le parlai profusamente della mia dedizione a Shakespeare, del Conrad di Lord Jim e della prima pagina di The Shadow-Line, e finii nominando Lionel Kronenberg. Di quest’ultimo, in verità, avevo acquistato Nella nebbia a fuoco solo pochi giorni prima e non avevo ancora iniziato a leggerlo, ma avevo l’impressione che sarebbe stato uno di quegli scrittori da annoverare tra le mie influenze in futuro – stavo solo accorciando i tempi. A sentire quel nome, però, la professoressa Zorzi rimase colpita. Mi chiese cos’avevo letto di suo, e io risposi col titolo del libro che dovevo ancora aprire.

«Ha mai sentito parlare di The Seasons Quartet?»

«È il prossimo in lista», risposi. Non era vero, almeno non prima che entrassi da quella porta.

«Bene, allora. Non appena lo ha letto, torni qui che ne parliamo. Lo legga in inglese – non in italiano. Più faticoso, ma vale la pena.»

Non appena tornai a casa, ordinai l’edizione inglese del libro che la Zorzi mi aveva consigliato, e, trascurando le letture obbligatorie dei corsi, iniziai subito a leggere Nella nebbia a fuoco. Il romanzo si incentra su Stefan Eicher, giornalista quarantenne di Londra, e il suo rapporto con Dieter, suo padre, ricoverato da mesi nel reparto oncologico del St George’s Hospital. Quando il padre inizia a soffrire di ricorrenti flashback nei quali crede di essere tornato sotto i bombardieri tedeschi nei giorni del Blitz, Stefan tenta di ricostruire quel passato: solo allora scopre che durante la guerra Dieter, giovane medico tedesco fuggito dalla Germania nazista, aveva lavorato in un ospedale nell’East End di Londra, zona calda dei bombardamenti, e aveva provato a espiare il tormento, l’orrore e il senso di colpa curando le vittime dei suoi connazionali. Mentre assiste il padre e cerca di fare i conti con la sua morte imminente, Stefan scopre così la vita di cui Dieter non aveva mai parlato, e si immerge assieme a lui – nei momenti di lucidità come nei momenti di confusione –
nella memoria di quei mesi ormai irraggiungibili e fin troppo tangibili al tempo stesso. Lessi le quattrocento pagine in meno di quattro giorni. Ne uscii estasiato.

Con The Seasons Quartet ebbi qualche difficoltà in più. Era uno dei miei primi libri in inglese, e dovevo rileggere la stessa pagina due volte prima di capirla a fondo, per non parlare delle lunghe frasi, che non erano sempre semplici da districare – ci impiegai un mese e mezzo per arrivare alla fine. Il paperback, apparso solo poche settimane prima, raccoglieva quattro romanzi brevi che Kronenberg aveva pubblicato in successione tra il 2002 e il 2005, legati alla figura di Edward Hoffmann, uno scrittore di successo che dopo un periodo di difficoltà si ritira con il suo cane, Pip, nella campagna inglese, dove conduce un’esistenza essenziale, fatta di solitudine e di gesti semplici e ripetitivi. In ciascun racconto, Hoffmann prova a fare i conti col ricordo di una delle persone che più l’hanno modellato: parla della madre scomparsa in Winter, del figlio in Spring, del fratello in Summer, di sua moglie in Autumn. Le quattro parti sono quasi prive d’azione – in Summer, ad esempio, Hoffmann porta a passeggio il cane nel pomeriggio, prepara la cena, legge prima di andare a dormire, nulla di più – ma quel presente ordinario è solo il punto di partenza per ripetute incursioni nella memoria, involontarie e inevitabili, da cui Hoffmann emerge con immagini e storie dal suo passato – o, come lo definisce lui, il «caleidoscopio instabile di ricordi che chiamiamo vita». In quegli innumerevoli scorci impressionistici in cui il passato è inscindibile dal presente vidi così tanta vita da rimanerne stordito – una vita che riconoscevo come nuda e dura, perfino brutale a volte, eppure vera, spogliata di ogni illusione e di ogni falsità, intrisa di tragicità e caos, come pure di profonda umanità. Era qualcosa che non conoscevo a fondo – avevo solo diciannove anni di serenità sulle mie spalle – ma che identificavo, quasi mio malgrado, come appartenente a quel mondo di cui mi apprestavo a far parte. Fu allora che sentii per la prima volta quella sensazione relegata alla vera letteratura; quella sensazione per cui, alla fine di un libro, ti sembra di aver capito qualcosa in più dell’interminabile significato dell’essere umano. Ne uscii sfinito.

©2024, Garzanti S.r.l., Milano
Gruppo editoriale Mauri Spagnol

(Continua in libreria…)

Fonte: www.illibraio.it

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