Consigli de ilLibraio.it

La materia di cui è fatto un memoir

14 Settembre 2023 |
di
Beatrice Galluzzi
"Il memoir non è autofiction, anche se chi scrive diventa necessariamente un personaggio...". Su ilLibraio.it la riflessione firmata da Beatrice Galluzzi, in libreria con "Sangue cattivo - Anatomia di una punizione", che è anche un percorso di lettura dedicato alla scrittura di un memoir

“Perché perdere tempo a inventarsi qualcosa quando il destino ti circonda di personaggi simili?”, scrive Mary Karr, nella sua introduzione a Il club dei bugiardi (traduzione di Claudia Lionetti, e/o, 2017). Si riferisce alla sua eccentrica madre e, in generale, alla sua famiglia. All’ordine del giorno, in casa sua, ci sono scenate folli e revolverate, tornadi del Texas, falò di materassi in giardino e una nonna con le gambe in cancrena. D’accordo, non tutti possono vantare di vivere in un ambiente così folcloristico, ma quando accade, ci si sente quasi in dovere di raccontarlo.

A me è successo così.

Ad avvicinarmi all’idea di scrivere un memoir, però, non è stata Mary Karr – che è arrivata anni dopo, quando ormai mi ero convinta di spiattellare tutto ai quattro venti – ma Augusten Burroughs, che con il suo Correndo con le forbici in mano (Traduzione di Giovanna Scocchera, Rizzoli, 2008) ha sdoganato in me quella vergogna insita nell’uscire allo scoperto: anch’io ho un familiare davvero fuori dagli schemi – e dai gangheri – e quello che succede in casa in casa mia non è fonte di vergogna ma può, in qualche modo, far ridere – deve far ridere.

Si dice che Burroughs abbia mentito (a partire dal suo nome, che in realtà è Christopher Robison) nel raccontare la storia di una madre paranoica che si diletta nello scrivere poesie, e di tanto in tanto parcheggia il figlio a casa di uno psichiatra disturbato e perverso, ma il punto non è quanto di ciò che ha scritto Burroughs sia vero, né quanta verità ci sia nel mondo di chi scrive memoir. Del resto, lo dice la parola stessa: si tratta di testi che hanno a che fare con la memoria, e la memoria in quanto tale è soggettiva e fallace, eppure attinge dalle parti più profonde e quindi più sentite di chi scrive.

Narrare di sé, della propria storia, non è guardarsi l’ombelico: una storia è una storia, un romanzo è un romanzo, lo slancio narrativo di chi scrive questo genere viene dalla materia che ci circonda ma a cui non si cambia il nome, personaggi compresi, e tutto questo ha un prezzo. Lo sa bene anche Tara Westover, che con il suo L’educazione (traduzione di Silvia Rota Sperti, Feltrinelli, 2018) ha descritto, elegantemente e senza giudizio, l’inferno della sua infanzia in una famiglia mormone dell’Idaho, in balia di un padre psicotico, costretta a rituali aberranti per prepararsi quotidianamente alla fine del mondo: “Il ricordo più vivo che ho non è un ricordo. È qualcosa che immaginavo e che poi ho iniziato a ricordare come se fosse successo”. La sua non è una storia a lieto fine; sebbene riesca a scappare e a costruirsi una propria educazione, rimane legata alle sue radici infestanti e deve prenderne le distanze, estirpando tutti i legami. Così ha fatto anche Patricia Lockwood in Priestdaddy. Mio papà, sacerdote (traduzione Manuela Faimali, Mondadori, 2020) raccontando gli aspetti estremi della sua formazione, il bigottismo dovuto alla religione e il bisogno ancestrale di libertà, contro il quale lotta ferocemente quando è costretta a tornare tra le mura domestiche. “La storia di una famiglia è sempre una storia di complicità”, ci dice, “È l’impossibilità di scegliere i segreti dei quali verrai a conoscenza”.

Questi segreti, quelli della vita di tutti, chi scrive memoir li deve selezionare e mettere in un ordine interno ma anche funzionale, che possa essere in qualche modo degno d’interesse. Non stiamo parlando di un diario che leggeremo soltanto noi, di uno sfogo intimista che rimarrà sepolto tra pagine scarabocchiate in un taccuino, ma di un percorso che cristallizza elementi fuggevoli e vitalissimi, per depositarli in un altro luogo, in un’altra vita che deve diventare comune, di chi legge. Il memoir è non è autofiction, anche se chi scrive diventa necessariamente un personaggio, si immerge nel contesto ma allo stesso tempo se ne distacca, altrimenti non si potrebbe raccontare. Quello che ho fatto scrivendo Sangue cattivo. Anatomia di una punizione (effequ, 2023) è stato smembrare parti di me e metterle sul lettino di una sala operatoria. Un luogo dove mi sono ritrovata più volte, mio malgrado, e dove si è trovato chi mi stava vicino.

Quando ho cominciato a scriverlo mio padre era ancora vivo e io non sapevo di essere malata – ora che ci penso, questa mia scelta potrebbe non essere stata di buon auspicio. Il sangue che gronda non è solo il mio, ma quello di tutta la mia stirpe, quello che ho ereditato e di cui non posso fare a meno, quello che non rinnego perché ha fatto di me ciò che sono, e mi ha regalato lo slancio di contrastarlo.

È dal racconto delle famiglie altrui che ho trovato la forza di raccontare della mia, è dalle sventure altrui che ho preso il coraggio di vivisezionare le mie. Una Creatura di Frankenstein tenuta insieme da dissennatezza e disgrazie condivise, che poi così disgrazie non sono, ma fanno parte del gioco e così entrano a far parte delle nostre storie.

Sangue cattivo beatrice galluzzi

L’AUTRICE – Beatrice Galluzzi, in libreria per effequ con Sangue cattivo – Anatomia di una punizione, è laureata in comunicazione nella Società della Globalizzazione. Vive a San Vincenzo, in provincia di Livorno, dove lavora come bibliotecaria e organizza laboratori culturali nelle scuole ed eventi culturali. È fondatrice e redattrice della rivista Donne Difettose. Ha partecipato alle antologie Repertorio dei matti della città di Livorno (Marcos y Marcos, 2016, a cura di Paolo Nori) e The dark side of the woman (Il Foglio, 2018). I suoi racconti compaiono in numerose riviste online.  e nel 2017 e nel 2018 è stata finalista al premio Giallo Mondadori. È inoltre organizzatrice del festival dedicato a scrittrici e sceneggiatrici ‘Marea Noir’.

beatrice galluzzi

Nel libro Beatrice è una donna difettosa; ha dietro di sé un ruvido passato di periferia romana, in balìa degli umori di un padre tanto squilibrato da sembrare comico, e del quale è convinta di aver ereditato la follia. Il presente, proprio quando con la morte del padre sembra aprirsi a un nuovo inizio, un trasferimento, un matrimonio, è soffocato dalla scoperta di una malattia autoimmune, e cadenzato da ospedali e cure che non sembrano funzionare. La felicità deve fare i conti con la costante sensazione di punizione di Beatrice: l’idea di meritarsi il proprio dolore. Un’idea che, tuttavia, viene combattuta a colpi di ironia, affrontando le paure e trasformandole in caricature mitologiche, e donandoci una storia tanto dolorosa quanto divertente che forse può meritarsi un lieto fine, o qualcosa che gli assomiglia.

Fonte: www.illibraio.it

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