Consigli degli autori

Andrea Tarabbia agli aspiranti autori: "Leggete (anche) opere del '900 italiano"

di
Matilde Quarti
La nostra intervista ad Andrea Tarabbia, premio Campiello 2019 "con Madrigale senza suono", e autore che si è sempre interessato alle strade e ai modi con cui il male si manifesta tra gli uomini: "Studiare la malvagità, il male gratuito, è una forza uguale e contraria che scrivere di un grande amore che va contro tutti. Sono due facce della stessa medaglia: l’estremo bene, l’estrema bellezza, l’estremo male, l’estrema bruttezza…"

Ha vinto il premio Campiello con Madrigale senza suono (Bollati Boringhieri, 2019), che racconta la vicenda umana e tormentata di Gesualdo da Venosa, sublime madrigalista autore di un efferato omicidio, ma per lo scrittore Andrea Tarabbia l’analisi dei recessi più oscuri dell’animo umano non è certo una novità.

Già autore de Il giardino delle mosche (Ponte alle Grazie, 2015), incentrato sulla vita e le ossessioni di Andrej Čicatilo, uno dei più spietati serial killer del Novecento, e di Il demone a Beslan, romanzo che gli è valso il successo presso il grande pubblico, uscito nel 2011 con Mondadori e ripubblicato nel 2021 da Bollati Boringhieri, che racconta la terribile strage della Scuola Numero 1 di Beslan dal punto di vista dei carnefici, Tarabbia si è sempre interessato alle strade e ai modi con cui il male si manifesta tra gli uomini.

Autore rigorosissimo dal punto di vista della ricerca tanto storica quanto formale e narrativa, Andrea Tarabbia approfondisce con ioScrittore.it le tematiche dei suoi libri e il processo creativo dietro alle sue storie.

Da cosa nasce questa continua ricerca letteraria sulle diverse strade, sociali o psicologiche che siano, da cui prende avvio la genesi del male?

“Chi compie il male contro qualcuno, fisicamente o con le parole, al di là dei motivi per cui lo fa, che possono essere sociali, psicologici, o politici, mi sembra che non faccia altro che portare all’estremo un istinto alla prevaricazione e alla violenza che come uomini abbiamo innato. Studiare chi compie atti malvagi per me significa studiare l’espressione radicale di qualcosa che appartiene a tutti noi. Come in un esperimento scientifico si porta una reazione all’estremo per vedere come si comporta un determinato elemento chimico, allo stesso modo si analizzano le reazioni tra gli uomini nelle loro manifestazioni peggiori o migliori, per dire chi siamo. Studiare la malvagità, il male gratuito, è una forza uguale e contraria che scrivere di un grande amore che va contro tutti. Sono due facce della stessa medaglia: l’estremo bene, l’estrema bellezza, l’estremo male, l’estrema bruttezza”.

Ha dichiarato di aver scritto questi romanzi soprattutto “per le vittime”, cosa intende?

“Credo che ogni vittima abbia il diritto di sapere perché subisce determinati atti brutali. Quando ho scritto Il demone a Beslan, ciò che mi ha spinto a lavorare su quanto successo in quei tre giorni alla Scuola Numero 1 non è stato tanto il motivo per cui la cellula di terroristi aveva fatto ciò che ha effettivamente fatto, perché era evidente fin da subito, dalle loro dichiarazioni, dai loro proclami, dal contesto storico… Il vero interesse per me è scaturito dai video di quelle giornate: li guardavo e pensavo a quei bambini di cinque o sei anni, che non potevano davvero sapere o capire il motivo per cui dei terroristi avevano appena sparato alla loro mamma, per cui indossavano cinture di tritolo o mettevano le bombe nel canestro del campo da basket, per cui li avevano lasciati senza bere e senza mangiare per tre giorni. Tutto questo un bambino non lo può capire. Io ho un figlio di sette anni che, ovviamente, finora ha avuto una vita molto più semplice rispetto a quella di un bambino osseto o ceceno, per questioni economiche, sociali, di ambiente. Ma, in ogni caso, se stasera entrasse qualcuno in casa e ci sequestrasse e tenesse legati per tre giorni al divano, lui non potrebbe sapere le ragioni profonde per cui gli sta accadendo quella determinata cosa, per cui deve subire il male. Quindi ho scelto di far raccontare queste ragioni direttamente da chi ha compiuto il sequestro. Mi sembrava un atto dovuto nei confronti delle vittime. Ed è lo stesso motivo che mi ha mosso a lavorare al Giardino delle mosche e ad altre cose che ho scritto nel corso degli anni”.

La scelta di dedicarsi a fatti storici, quindi reali e già compiuti, dipende da questa esigenza di ricercare le possibili radici del male che alberga nell’umanità?

“Quando ho iniziato questo arco narrativo ero semplicemente stato colpito da queste tre storie e, in particolare per quanto riguarda Il demone a Beslan, ho iniziato a studiare l’argomento e a recuperare i materiali che mi servivano senza un’idea precisa di cosa ne sarebbe nato. Avevo chiaro in mente di scrivere un romanzo, ma non sapevo che avrebbe poi assunto quella determinata forma. Il demone a Beslan è un libro rigorosissimo dal punto di vista della scansione temporale e degli avvenimenti conosciuti: per esempio Ruslan Betrozov è il padre che si offrì di fare il traduttore dal russo all’osseto, e così avviene nel libro. Per contro, nella realtà di Beslan non c’è stato nessun Marat Bazarev [il protagonista e narratore del Demone a Beslan, che non corrisponde con l’unico terrorista sopravvissuto all’attentato, Nurpashi Kulaiev, che sta attualmente scontando una condanna a vita in Russia]: si tratta di un personaggio inventato, con una biografia inventata. Degli altri terroristi, circa la metà hanno i loro nomi reali, ma non essendo riuscito a risalire all’identità dell’altra metà ho dovuto immaginarla. C’è una componente di realtà, nel Demone a Beslan, ma anche una componente di invenzione molto alta. E lo stesso avviene in Madrigale senza suono: alcuni personaggi del libro sono esistiti realmente, ma magari gli faccio compiere degli atti arbitrari, e poi ce ne sono altri inventati. Insomma, mi appoggio alla realtà ma ne sfrutto i vuoti: non possiamo conoscere la totalità dei fatti che vanno a comporre un evento, su quelli conosciuti bisogna essere rigorosi e filologici, ma quello che non è documentato puoi immaginarlo”.

Un elemento che fa da fil rouge a questi romanzi è la cultura russa. Che cosa ha comportato, nella sua crescita e consapevolezza letteraria, l’incontro con la narrativa russa?

“Sono diventato la persona che sono perché al liceo ho letto le Memorie del sottosuolo di Dostoevskij e la lirica di Majakovskij Ma voi potreste e ho capito che volevo studiare la lingua e la letteratura che le avevano prodotte. Quindi mi sono iscritto a Lingue e letterature straniere a Milano e il primo corso di Letteratura russa di Fausto Malcovati era un monografico su Dostoevskij. Quando poi ho scoperto che avrei anche potuto scrivere dei romanzi e non sono leggerli, è stato normale occuparmi di quel paese e di quella cultura”.

Ci sono degli aspetti in comune tra la triade composta da Il demone a Beslan, Il giardino delle mosche e Madrigale senza suono e gli altri suoi due romanzi, La calligrafia come arte della guerra e Marialuce?

“In realtà i gradi di separazione non sono molti. Ho scritto La calligrafia come arte della guerra mentre mi documentavo per Il demone a Beslan, che mi ha tenuto occupato complessivamente per quattro anni. Siccome volevo che fosse un romanzo a più punti di vista e non con un’unica voce monologante, dopo alcune prove che ho accantonato mi è venuta l’idea della Calligrafia come arte della guerra, in cui c’è una parte ambientata in una scuola con le voci degli studenti che si alternano. Certo, è una distopia e, soprattutto dal punto di vista del rapporto realtà-finzione, c’entra poco con i romanzi che gli sono seguiti, ma in realtà non è così scollegato perché è stato scritto in una circostanza precisa. Invece Marialuce mi fu commissionato da Alessandro Raveggi ed Enrico Piscitelli, che dirigevano la collana 9volt della casa editrice Zona. In quel periodo avevo capito qual era la strada che volevo intraprendere con i libri successivi al Demone a Beslan e stavo ragionando su certi temi legati alla creazione musicale. Quindi ho voluto provare a scrivere un romanzo breve, o racconto lungo, borghese, fatto principalmente di interni, insomma l’esatto contrario di quello che avevo scritto in precedenza”.

Sul suo blog ha raccontato di aver effettuato qualche modifica al testo prima di questa nuova pubblicazione del Demone a Beslan. Ritiene ci siano dei limiti oltre cui non si dovrebbe modificare un testo già pubblicato in precedenza oppure ha una concezione del romanzo come qualcosa di fluido?

“Quando ho riletto Il demone a Beslan per il lavoro di revisione l’ho trovato un libro con delle ingenuità, ma anche pieno di una forza, di una vitalità e una freschezza che adesso non ho più, perché essendo ormai passati quindici anni da quando l’ho scritto sono anch’io un’altra persona. Mi è piaciuto rileggerlo, ma ho trovato un paio di errori, piccole imprecisioni che ho voluto correggere, come un vocabolo russo tradotto in modo sciatto. Poi ho modificato un pezzo più consistente, di una quindicina di righe, in cui ho trovato un errore di punto di vista, e ho tradotto in italiano delle canzoni che, all’epoca, avevo lasciato in russo traslitterato. Non mi ricordo perché lo avessi fatto, ma dopo la rilettura non mi è sembrato avesse senso, perché tutto il libro sarebbe teoricamente in russo visto che nella finzione è scritto da Marat Bazarev. Però non avrei mai fatto una riscrittura. Anche perché il mio italiano di oggi è diverso da quello di allora, più ampio. Il Demone a Beslan è scritto con frasi molto brevi, che non mi corrispondono più. Se lo scrivessi adesso userei un’altra lingua, che non sarebbe adatta all’idea che il testo sia il manoscritto di un detenuto a cui viene passato sotto la porta ogni giorno un foglio A4 e che, quindi, deve raccontare in poco spazio e molto di fretta. Ma scriverlo con un’altra lingua non sarebbe giusto, un romanzo per me ha senso come viene scritto: si può correggerlo per migliorarlo, ma poi deve avere una sua vita”.

Come si innesca il meccanismo per cui capisce che un’idea è quella giusta attorno a cui costruire un nuovo romanzo?

“Parte tutto da una suggestione: vedo un’immagine, leggo un articolo o un reportage che mi interessa e comincio ad appuntarmi l’argomento, pensando che magari, in un futuro remoto, potrebbe essere interessante come spunto per costruire una storia. Dopodiché compro dei libri, faccio qualche ricerca per approfondire quella suggestione, ma non ci lavoro ancora. Prendendo per esempio Madrigale senza suono: se mi interessa la storia di Gesualdo da Venosa perché ho visto un documentario di Werner Herzog su di lui, compro una biografia uscita per Sellerio per saperne di più e la leggo come qualsiasi altro libro. Però, se tutte le volte che passo davanti a un negozio di musica mi fermo a guardare i liuti e in ogni momento libero vado a cercare quella storia, a guardare com’era fatta Napoli nel Seicento, allora, mi viene il sospetto che forse potrei scriverne. Da quel momento comincia un lavoro di accumulo, perché spesso mi interesso ad argomenti di cui non so molto, per cui devo studiarli. È un’evoluzione che comincia con una suggestione e continua con un approfondimento. Se, infine, chiedo qualche consulenza o approfondimento, per esempio domandando dei documenti alla Società Gesualdina d’Irpinia, allora mi prendo la responsabilità di farmi dedicare da qualcuno parte del suo tempo e significa che sto lavorando seriamente a quella storia”.

Per quanto riguarda l’evoluzione del suo stile narrativo, è avvenuta in modo spontaneo o c’è stata una ricerca precisa di romanzo in romanzo?

“Credo che l’evoluzione nella scrittura dipenda da quello che leggi e dal fatto che trovi in quello che leggi qualcosa che ti somiglia, nonostante non sia stato tu a scriverlo. È questo che porta ad affinare la tecnica. In questi dieci anni ho letto di più e più approfonditamente una letteratura che conoscevo meno rispetto ad altre: quella italiana degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Per esempio Volponi, Malaparte, Parise, Piovene, Ortese. Mi piacerebbe arrivare a sviluppare un italiano come quello di Piovene. Ovviamente si tratta di un lavoro molto lento, non basta desiderare di esercitare un certo tipo di prosa perché questo avvenga. Insomma, negli anni sono cambiati i miei modelli: da giovane erano soprattutto stranieri (e letti per la maggior parte in traduzione)”.

Lei insegna anche scrittura: qual è il consiglio più importante che dà ai suoi studenti?

“Leggere: sembra un consiglio banale, ma è l’unica cosa che funziona. Spesso capita di trovarsi davanti a persone con un buon talento, ma che leggono solo venti romanzi all’anno e sono sempre gli autori ‘che bisogna leggere’, come Philip Roth per esempio, ma magari non hanno mai sentito nominare Gesualdo Bufalino. Ovviamente Pastorale americana va letto, ma va letto insieme alla Diceria dell’untore, se ti limiti a Pastorale americana perdi un’occasione, perché è necessario leggere autori che abbiano fatto qualcosa per la lingua italiana, che è la lingua in cui scrivi. La letteratura italiana ha una storia, un passato, un presente, un futuro, e chi scrive vuole inserirsi in questo flusso, essere un anello di questa catena. Allora è giusto che conosca gli altri anelli a cui si vuole legare, quali sono i parenti, vicini e lontani, che hanno scritto nella stessa lingua. Il mio consiglio, quindi, è leggere tanto, ma ogni tre libri leggerne uno che ha a che fare con il Novecento italiano”.

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