Consigli degli autori

Bruno Arpaia: l’avventura della conoscenza

di
Matilde Quarti
Su IoScrittore Bruno Arpaia, in libreria con Il fantasma dei fatti, racconta il suo percorso nel mondo della scrittura e in quella che chiama “l’avventura della conoscenza”

Bruno Arpaia (nella foto di Yuma Martellanz ndr), romanziere, traduttore e giornalista, è tornato in libreria con Il fantasma dei fatti, un testo ibrido, con una struttura narrativa complessa che utilizza il romanzesco per raccontare una vicenda politica tra Italia e Stati Uniti, in cui sono implicati grossi industriali nostrani e niente meno che la CIA. Arpaia si serve sapientemente di più piani narrativi, in cui mescola realtà e finzione, creando un gioco di specchi che tocca al lettore riuscire a risolvere. Bruno Arpaia è un autore prolifico, che ama spaziare tra gli argomenti, dalla fisica delle particelle al cambiamento climatico, e tra gli stili, passando dal romanzo noir al pamphlet saggistico: IoScrittore.it lo ha intervistato per farsi raccontare il suo rapporto con la scrittura e il suo metodo.

Il suo editore, da vent’anni a questa parte, è Guanda. Cosa può dare a un autore un rapporto così longevo con una casa editrice?
Da quando vivo a Milano, ho sempre bazzicato l’ambiente editoriale, per cui è una realtà che conosco abbastanza bene. Guanda fu la casa editrice che accettò L’angelo della storia, e con loro mi sono trovato benissimo da subito: il direttore editoriale è un editore “vecchio stile”, con cui è possibile parlare anche tecnicamente del proprio libro e che ti segue nelle vicende editoriali. Poi ovviamente nessuna casa editrice può essere quella “ideale”, però ho ritenuto che fosse importante avere un posto in cui sentirmi a mio agio. Conosco certi colleghi sempre insoddisfatti, che cambiano continuamente editore perché ritengono di non essere stati ben seguiti, o ben promossi. Ma io credo che alla fin fine quel che conta davvero sia il rapporto che si riesce a instaurare con tutte le persone che lavorano in una casa editrice e che, insieme a te, fanno il libro.

Lei è giornalista, oltre che romanziere, cosa l’ha spinta a intraprendere entrambe le strade?
La passione per la scrittura e la curiosità per il mondo. Non vedo grandi differenze tra fare il giornalista e fare il romanziere: la spinta è la stessa, perché devi avere grande interesse per quello che ti succede intorno e un ego abbastanza contenuto, perlomeno quando scrivi, altrimenti scrivi sempre le stesse cose con la stessa voce. E poi anche quando preparo – anzi, preparavo, perché adesso lo faccio sempre meno – un articolo, bado molto al “come”, perché penso che il modo in cui viene detta una certa cosa sia indistinguibile da ciò che si dice: insomma il modo in cui la racconti, trasforma una storia. E questo vale sia per la scrittura giornalistica, sia per la narrativa.

Quando ha capito che avrebbe voluto scrivere?
È quello che ho sempre voluto fare, da quando avevo quindici, sedici anni. Vivendo in un paesino della provincia di Napoli, al di fuori di qualsiasi circuito letterario, per molto tempo ho avuto anche qualche pudore a confessarlo agli amici. E poi pian piano per fortuna, con la tenacia e la disciplina, ci sono riuscito.

Lei è anche un noto traduttore dallo spagnolo. In qualche modo il suo mestiere di autore influisce su quello di traduttore e viceversa?
Certamente il mio essere romanziere influisce sul lavoro di traduzione, perché mi porta a conoscere bene i meccanismi della narrazione e avere una riserva lessicale più ampia del normale. I traduttori devono avere una libertà delimitata da regole ben precise, perché l’importante non è tradurre letteralmente quello che un autore – nel mio caso ispanico – dice, bensì fare in modo che la sua intenzione sia trasmessa nell’universo linguistico in cui arriva – quindi in italiano. E questa libertà mi deriva anche  dall’essere romanziere. D’altra parte, tradurre un libro è il modo più efficace per smontarlo e capirne i meccanismi, perché a volte ci si rende conto che qualcosa non funziona solo andando in profondità. Tradurre aiuta ad ampliare la cassetta degli attrezzi del narratore. Sono vasi comunicanti che influiscono reciprocamente l’uno sull’altro.

Come nasce l’idea per un nuovo libro? Cosa fa scoccare la scintilla?
È abbastanza facile, perché sono una persona curiosa, che è quello che deve essere di natura un narratore, perché altrimenti racconterebbe sempre storie che hanno a che fare con se stesso o con l’ambiente che lo circonda. Per mettermi a scrivere un romanzo, che nel mio caso significa sapere che spesso ci sarò immerso per tre, quattro anni, l’idea di partenza, lo spunto iniziale non deve solo interessarmi, ma trasformarsi in un’ossessione, qualcosa per cui quando vado a letto la sera o a fare la spesa al supermercato continuo a pensarci. E soprattutto capire che, imboccando quella strada, alla fine del percorso arriverò cambiato (che, ovviamente, è quello che sperò succeda anche al lettore).

Quanto ha impiegato a scrivere Il fantasma dei fatti?
Undici anni. Sono partito con un’idea e dopo così tanti anni di ricerche l’ho completamente ribaltata. Per cui mi è sembrato importante raccontare nel libro anche di queste ricerche e del modo in cui pian piano cambiava la mia idea rispetto alle storie che avevo immaginato di raccontare. Questo perché, come dicevo, dev’esserci sempre uno stimolo interiore alla curiosità e alla conoscenza. È l’unica cosa che conta, il romanzo dev’essere un’esperienza conoscitiva, sia per chi lo scrive sia per chi lo legge.

I suoi libri hanno sempre un profondo legame con la storia e con l’attualità: ci racconta come si svolge il processo di ricerca e studio delle fonti?
Cambia tutte le volte, perché un conto è interessarsi di Walter Benjamin per raccontare i suoi ultimi giorni di vita, un conto di fisica teorica o di cambiamento climatico. E quindi ogni volta le fonti sono diverse e il modo di approcciarsi è diverso. E poi io non sono uno storico, sono un romanziere. Per esempio, se devo scrivere di Walter Benjamin, magari mi interessa un pranzo in cui ha detto una certa frase, cosa che per uno storico è irrilevante, mentre per me è importante perché fa emergere un dettaglio che mi aiuta a definire la sua personalità. Quindi scavo alla ricerca di questo tipo di dettagli utili alla narrazione.

Il suo ultimo libro, Il fantasma dei fatti, ha una struttura complessa che alterna più piani temporali, nonché realtà e finzione.
Ogni storia ha bisogno della sua architettura, e questa doveva per forza averne una complessa. Sono due piani narrativi, in cui tengo separati i fatti da, appunto, i fantasmi dei fatti, dall’immaginazione. Poi non sempre questo succede e diventa quindi un gioco con il lettore, che deve cercare di dirimerli da solo. Anche perché spesso la realtà è più fantastica della finzione e la finzione è quasi indistinguibile dalla realtà. Ci sono zone d’ombra che resteranno sempre confinate all’immaginazione e alla finzione.

Se dovesse dare un unico consiglio a un aspirante scrittore, quale sarebbe?
Scrivere tanto, e buttare via ancora di più. E leggere soprattutto, leggere moltissimo, perché non si può scrivere se non si legge. L’avventura della conoscenza è un piacere: leggendo si scoprono tante cose, anche su se stessi, si impara ad avere relazioni, vita sociale. E poi leggere fornisce la cassetta degli attrezzi necessaria per scrivere: se non leggi non riuscirai mai a scrivere. Per scrivere ci vuole rigore, disciplina, e sapere come usare la propria cassetta degli attrezzi.

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