Consigli degli autori

Marco Vichi, creatore del commissario Bordelli, indaga nei misteri della scrittura

di
Redazione IoScrittore
Scrittura e voglia di pubblicare il proprio romanzo possono andare di pari passo? Quali i consigli più utili per un aspirante scrittore? Quanto bisogna credere in se stessi?

Marco Vichi è nato nel 1957 a Firenze e vive nel Chianti. Presso Guanda ha pubblicato i romanzi: L’inquilino, Donne donne, Il brigante, Un tipo tranquillo, La vendetta, Il contratto, La sfida, Il console, Per nessun motivo; le raccolte di racconti Perché dollari?, Buio d’amore, Racconti neri, Se mai un giorno; la serie dedicata al commissario Bordelli: Il commissario Bordelli, Una brutta faccenda, Il nuovo venuto, Morte a Firenze (Premio Giorgio Scerbanenco – La Stampa 2009 per il miglior romanzo noir italiano), La forza del destino, Fantasmi del passato, Nel più bel sogno; il graphic novel Morto due volte, con Werther Dell’Edera, e la favola Il coraggio del cinghialino. Ha inoltre curato le antologie Città in nero, Delitti in provincia, È tutta una follia, Un inverno color noir e Scritto nella memoria. Il suo sito internet è www.marcovichi.it

Come hai pubblicato il tuo primo romanzo?
È stata una buffa avventura: dopo quasi diciotto anni di lettere di rifiuto (che conservo ancora in una cartellina bella gonfia) avevo appena deciso di non fare più nulla per pubblicare, anche se ovviamente avrei continuato a scrivere per sempre. Pochi giorni dopo, per via di una «catena» di lettori che non si è interrotta, eccomi sulla scrivania di Luigi Brioschi Direttore editoriale di Guanda, che mi ha telefonato:
«Vorrei pubblicare il suo romanzo.»
«Non so se posso, sto aspettando altre risposte» gli ho ribattuto.
Eh sì, per vendicarmi verso tutti gli editori che mi avevano rifiutato, ho fatto il prezioso. Ma sapevo già che avrei firmato con Guanda, che continua a essere il mio editore dopo venti anni tondi tondi.

Che cosa ti ha dato il rapporto con l’editore?
Be’, nella scrittura non si finisce mai di crescere e di maturare, e anche il rapporto con la casa editrice dà il suo contributo.

Quando scrivi pensi a un lettore ideale?
Il lettore ideale è un «me stesso» molto esigente e critico, direi quasi «cattivo», ma credo che questa entità sia una mescolanza di tutte le persone che stimo.

Che importanza hanno le riscritture?
Per me sono basilari, indispensabili. È una sorta di doveroso restauro. Ogni tanto escono dalla penna frasi o intere pagine che non hanno nulla a che fare con la propria «musica». Sono umori personali, inutili, sfuggiti al controllo, che devono essere cancellati. Con l’esperienza si capisce che tagliare è un piacere, non una sofferenza, come può capitare di pensare quando si comincia a scrivere. Non mi sono mai scordato il bellissimo aneddoto che Zweig racconta nel Mondo di ieri: «Era entrato in cucina con il sorriso, e sua moglie gli chiese: ’hai scritto una bella pagina?’, e lui rispose: ’no, ne ho cancellate due’.»

Quali consigli daresti a un aspirante scrittore?
Di scrivere senza pensare alla pubblicazione, al pubblico, al riconoscimento concreto… cioè di tenere ben separate le due faccende. Scrittura e voglia di pubblicare non devono tenersi per mano, non devono nemmeno conoscersi.

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