3 situazioni che prima o poi uno scrittore si trova ad affrontare, raccontate da uno di loro
1- L’incontro con i lettori
Cominciai a scrivere racconti all’età di dodici anni. Il mio era più un lamento, però, una teoria di storielle autobiografiche. L’unica che sembrava apprezzare – al punto da commissionarmi i sequel dei miei racconti! – era una ragazzina che inspiegabilmente aveva una cotta per me. Poi ho lavorato come giornalista per una decina d’anni. Un giornale è come una squadra di calcio, si dividono gli onori e gli oneri, le glorie e le frustrazioni. Ci si può nascondere, in certo qual modo. Scrivere un romanzo è diverso. È come un singolo a tennis: sei tu e basta. Se sbagli, sbagli da solo. Il mio primo contatto con un lettore è stato singolare: l’ho mandato al diavolo. Era da poco uscito il mio primo romanzo, giravo in scooter per la città, sbrigavo faccende. Azzardai un sorpasso su una strada con la striscia continua, era quasi fatta, ma poi l’auto girò un pochino a sinistra rischiando di investirmi. Con impeto eccezionale mi voltai verso il conducente e lo mandai calorosamente a quel paese. Vidi che sul cruscotto aveva il mio romanzo. Pensai che, a ogni buon conto, la mia era pur sempre una dedica.
2 – Trovarsi “in cattedra”
Una delle cose più strane che mi siano capitate (e che ancora mi capita) è essere invitato nelle scuole e nelle università a parlare con gli studenti. Io che a scuola ero pluriripetente. Bocciato tre volte. A un certo punto cambiai anche scuola, iscrivendomi all’istituto tecnico in cui insegnava mia madre, contando sul fatto che mi avrebbero promosso per una questione di solidarietà fra colleghi. Ottenni due risultati. Il primo: mi bocciarono anche lì. Il secondo: a una settimana dalla mia iscrizione, quando la incrociavano nei corridoi i colleghi non salutavano più mia madre. Ogni insegnante, ogni preside, ogni docente universitario che mi chiama a parlare coi suoi studenti, sa che lo racconterò. Non me ne vanterò, certo, perché non c’è nulla di cui vantarsi, ma lo racconterò. In queste occasioni mi sento come se mi trovassi dalla parte sbagliata della cattedra. Cos’è cambiato in me da quando ero un pluriripetente? Quasi nulla, direi. E’ una specie di paradosso.
3 – Riconoscere al volo il proprio talento
Per tanti anni ho fatto il musicista di jazz: suonavo nei locali, insegnavo musica, collaboravo con musicisti di grande fama e talento. Ero deciso a fare il musicista. Al mio maestro e mentore, un giorno dissi: “Non ho alternative. Devo diventare un professionista. Nella mia vita non ci sono altre opzioni, non ammetto nient’altro che questo. Devo essere un musicista”. Non sono mai riuscito a sfondare. Un giorno appesi la chitarra al chiodo (tradotto: vendetti due chitarre per svariati milioni di lire) pensando: se devo arrangiarmi a dare lezioni e a suonare per pochi spiccioli, se questa è la vita che faccio, allora vuol dire che non ho abbastanza talento. L’approccio alla scrittura è stato completamente opposto. Cominciai a scrivere un romanzo come se fosse una scommessa, una specie di esperimento. Pensavo: “Che me ne frega. Se mi va male, come quasi certamente accadrà, avrò da leggere tutti i libri del mondo”. Quell’esperimento si concluse così: la mia agente mi telefonò per chiedermi: “Con quale editore vuoi pubblicare?”. Le risposi: “Guarda, me ne basta uno, un solo povero disgraziato”. Mi disse che ce n’erano cinque, ed erano cinque fantastici editori. La cosa bella è che, in ogni caso, non ho dovuto mettere da parte il mio sogno di leggere tutti i libri del mondo.
Stefano Piedimonte è nato a Napoli nel 1980 e si è laureato all’università L’Orientale. Ha lavorato per giornali e trasmissioni televisive, occupandosi principalmente di cronaca nera. I suoi racconti e articoli sono pubblicati nelle pagine culturali di Corriere della Sera, Il Fatto Quotidiano, Satisfiction, Corriere del Ticino, L’Unità. Per Guanda ha pubblicato Nel nome dello Zio (2012) e Voglio solo ammazzarti (2013). Il 25 settembre esce sempre per Guanda il suo nuovo romanzo, L’assassino non sa scrivere.
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