Consigli degli autori

Non pensare alla pubblicazione: Marco Vichi consiglia pazienza agli aspiranti autori

di
Matilde Quarti
Marco Vichi, scrittore amatissimo dal pubblico, autore di romanzi e racconti, ha raggiunto la fama con le avventure del commissario Bordelli, gialli ambientati nell’Italia degli anni ’60, in cui Vichi si confronta con la complessa eredità storica di quel periodo.

In libreria con Un caso maledetto (Guanda, 2020), Vichi segue ancora una volta le orme del commissario Bordelli che, prossimo alla pensione, si trova a doversi confrontare con un caso tutt’altro che semplice…

Abbiamo intervistato l’autore per farci raccontare i segreti dietro la sua scrittura.

Com’è arrivato alla pubblicazione del suo primo libro?

“Era il lontano 1997, dopo quindici anni che scrivevo senza alcuna riuscita editoriale, decisi di smettere di cercare di pubblicare, anche se ovviamente non avrei mai smesso di scrivere: per me sarebbe stato un po’ come smettere di mangiare. Ecco che subito dopo questa decisione – incrollabile e definitiva – per mezzo di un giornalista di Firenze, Fabio Norcini, alcuni miei lavori arrivarono a Milano nelle mani di Luigi Spagnol (recentemente scomparso), comproprietario dell’attuale Gruppo Editoriale Mauri Spagnol. Leggendo i miei racconti, Luigi saltò tre o quattro fermate di tram, e pensò di portare quelle pagine al direttore (tuttora) di Guanda, Luigi Brioschi, il quale mi chiamò per propormi di firmare il mio primo contratto. E così, di Luigi in Luigi, approdai alla mia casa editrice preferita, pubblicando il primo romanzo nel ’99”.

Come nasce di volta in volta l’idea per un nuovo libro, che cosa le fa scoccare la scintilla?

“Se dicessi che l’origine della scintilla mi è chiara, mentirei. Le storie mi vengono a cercare, ho la sensazione di essere solo un tramite. A un tratto vedo una scena, o sento un dialogo, o vedo un volto, e dietro quella prima suggestione mi sembra di scorgere una storia da disseppellire. La scrittura per me non è invenzione, ma scoperta, un percorso di conoscenza assai emozionante”. 

Lei ha scritto sia romanzi sia racconti e anche tra i romanzi si è diviso tra storie autoconclusive e serialità: a che diverse esigenze rispondono queste differenti tipologie di narrazione?

“Non so come mai, ma raccontare storie mi piace, mi diverte, mi appassiona. Scrivere è il gioco più bello del mondo, almeno per me. E mi piace esplorare ogni territorio narrativo possibile, senza nessun limite. Mi piace avventurarmi in sentieri per me sconosciuti, scoprire nuovi mondi, mettermi alla prova”.

Parliamo di metodo: quali sono le sue abitudini di scrittura?

“Sono cambiate nel tempo. Prima scrivevo solo di notte, adesso scrivo di pomeriggio e a volte anche di mattina. Ho scritto in diverse stanze della casa, a volte anche davanti a un televisore acceso con il volume azzerato”.

Com’è nato il commissario Bordelli?

“È nato per gioco, nel ’95, sull’onda dell’entusiasmo per i romanzi di un grande scrittore svizzero che usava il poliziesco (genere di cui non sono mai stato appassionato) per fare indagini umane e non poliziesche: Friedrich Dürrenmatt”.

Inserisce le vicende del commissario Bordelli in una precisa cornice storica che va dal 1963 al 1970 (con incursioni negli anni ’50). Come mai? In che modo l’aspetto storico arricchisce il romanzo?

“Non è stata una decisione studiata a tavolino. Quando nel ’95 scrissi le prime pagine del commissario, la storia si svolgeva nell’attualità… Poi Bordelli mi guardò dalla pagina e mi disse: ‘Ehi, Vichi, ma davvero vuoi farmi vivere in questa epoca? Dai, spingimi indietro, a me piacciono gli Anni Sessanta’. E io gli ho dato retta”.

Anche gli ambienti sono molto importanti nell’economia delle vicende, dalla città di Firenze agli interni dove si muovono i personaggi: come lavora a queste atmosfere?

“Per scrivere qualcosa devo prima vedere la scena. Sono un appassionato di cinema fin da quando ero bambino. Da adolescente e da ragazzo andavo al cinema tutti i pomeriggi, a volte a vedere due film diversi, e non perdevo nessun film e nessuno sceneggiato alla televisione, dunque vedevo più o meno trenta film al mese, una vera e propria mania. Questa lunga esperienza è rimasta dentro di me”.

Quando parliamo dei romanzi del commissario Bordelli, parliamo di storie che si inseriscono in un genere definito, il giallo. Tuttavia sembra scardinare molti cliché e topoi narrativi e accordare grande importanza alle vicende dei singoli personaggi: mi parla di questo aspetto?

“Diceva il grande Silone (che ovviamente ha copiato da me): ‘Quello che solo conta in ogni opera letteraria sono ovviamente le vicende della vita interiore dei personaggi’. Come dicevo prima, non ho nessuna passione per il genere giallo, le mie letture sono sempre state altre, ad esempio, da giovanotto (come si diceva una volta), ho nuotato per anni nell’oceano dei russi dell’Ottocento e del primo Novecento, da Gogol a Bulgakov, mi sono avventurato nella tragedia greca e nei classici latini, ho ascoltato la voce di Omero, di Dante, di Manzoni, di Leopardi, Fogazzaro, De Amicis, De Roberto, e via via mi sono cibato, e tuttora continuo a farlo, della grande letteratura italiana del Novecento, costellata di magnifici scrittori poco frequentati o addirittura dimenticati… Tutta questa galoppata per dire che se scrivo dei polizieschi, è normale che spuntino fuori dei romanzi ‘non troppo polizieschi’”.

Nel corso della sua carriera ha anche insegnato scrittura, quali sono gli aspetti più importanti che un aspirante scrittore deve tenere a mente?

“In realtà la scrittura non si insegna, ma si possono accelerare il processo di maturazione, un po’ come fa in chimica un catalizzatore. Uno dei risultati più importanti è conquistare la capacità di criticare se stessi, diventare lettori spietati di quel che scriviamo, saper buttare via le pagine brutte (che non sono mai inutili). Tutto si gioca sul ‘rapporto’ che abbiamo con la scrittura, come la consideriamo, cosa cerchiamo quando scriviamo, cosa ci accade quanto raccontiamo. Abbiamo davvero questa passione o è solo un ideale? Siamo capaci di rispettare le storie che raccontiamo, di scomparire dietro la nostra scrittura, o vogliamo solo farci belli ed essere lodati per come sappiamo mettere insieme belle frasi?”.

Se dovesse dare un unico consiglio a un aspirante scrittore, quale sarebbe?

“Quando scrivi non pensare alla pubblicazione, che è un altro gioco. Armati di pazienza, se son rose fioriranno”.

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