Consigli degli autori

Federica Bosco: scrivere per raccontare la vita

di
Matilde Quarti
“Molti dei miei romanzi sono considerati ‘chick lit’ perché ci sono storie d’amore, perché le copertine sono rosa, però si parla anche di morte, di perdite, di dolore, perché sono storie vere e la vita è questa. La felicità non arriva mai gratuitamente e la devi coltivare”… A IoScrittore, la scrittrice Federica Bosco, con all’attivo venti romanzi in cui racconta divertenti e commoventi vicende che rispecchiano la vita stessa, parla del suo rapporto con la scrittura.

Federica Bosco scrive e pubblica con successo romanzi da quindici anni esatti. Un libro all’anno, ogni tanto anche due. D’altronde, lo ammette lei stessa, è una stacanovista e non ha paura di impegnarsi in un nuovo lavoro. Le sue storie, romantiche e ciniche, ironiche e riflessive, partono sempre da vicende vicine all’autrice, che le rielabora inventando intrecci e personaggi sempre apprezzati dai suoi lettori. Mentre aspettiamo di incontrarla di nuovo in libreria, le abbiamo fatto qualche domanda, per scoprire il suo mondo e il suo rapporto con la scrittura.

Si ricorda il momento del suo esordio?

“Avevo poco più di trent’anni e non me lo sarei mai aspettata. Certo, sapevo di saper scrivere, ma non mi ero mai cimentata nella stesura di un romanzo: avevo fatto altri lavori, viaggiato molto, non avevo l’idea di voler diventare una scrittrice, come invece altri colleghi. Quando mi misi a scrivere quello che poi è diventato il mio primo romanzo, Mi piaci da morire, che ho pubblicato con Newton Compton nel 2005, era un’estate funesta: particolarmente afosa, in cui ero rimasta a Firenze, senza ferie perché avevo cambiato lavoro da poco, ed ero appena uscita da una storia con un ragazzo di cui ero molto innamorata”.

Com’è arrivata alla pubblicazione di Mi piaci da morire?

“All’epoca non avevo nessun contatto con il mondo dell’editoria, quindi ho fatto quello che si fa di solito: mandare il manoscritto alle case editrici. Molte mi risposero ‘picche’, mentre da Newton Compton mi dissero che erano interessati. Furono lungimiranti, perché all’epoca in Italia non c’erano molti autori che scrivessero romanzi con quello spirito un po’ ‘alla Bridget Jones’, con protagoniste irriverenti e ironiche, che si sanno prendere in giro e non devono essere a tutti i costi delle eroine classiche. Quando ho firmato il primo contratto non avevo neanche un agente. E da quel momento cominciai a scrivere come una forsennata: il prossimo sarà il mio ventunesimo romanzo. Sono rimasta dieci anni con Newton Compton, poi ho scritto cinque romanzi per Mondadori e, alla fine, sono approdata a Garzanti. Ho lavorato sodo: sono una stacanovista e penso che le cose non te le regali nessuno, vanno meritate”. 

Da cosa nasce l’idea per un nuovo libro?

“Racconto sempre storie molto vicine a me, come donna, nel periodo in cui mi trovo. Posso sentire la mia voce davvero vicina solo se conosco quello di cui sto parlando. Per esempio, se racconto la storia di un amore che finisce, allora significa che mi è successo. La difficoltà è: come racconto questa storia? Devi saperla rendere, farla capire al lettore, dev’essere un’idea semplice perché il lettore si deve poter immedesimare in quello che scrivi. E poi, per mantenere la sua attenzione, ci vuole un ritmo, bisogna alternare i dolori alle gioie, usare l’ironia, come poi succede nella vita vera. Molti dei miei romanzi sono considerati ‘chick lit’ perché ci sono storie d’amore, perché le copertine sono rosa, però si parla anche di morte, di perdite, di dolore, perché sono storie vere e la vita è questa. La felicità non arriva mai gratuitamente e la devi coltivare”. 

Quindi mette molto di sé nei testi che scrive.

“Sì, tanto di me e di quello che osservo. Quando la vita entra, io mi sento obbligata a parlarne, non riesco ad avere un metodo diverso. Per esempio, Mi dicevano che ero troppo sensibile [Vallardi, 2017 NdR] racconta veramente la mia vita. Io non sapevo di essere ipersensibile, è un tratto del carattere ancora poco studiato e conosciuto e l’ho scoperto soltanto cinque anni fa. Essere ipersensibili significa sentire tanto, essere ansiosi, anticipare gli eventi. E fin da quando sei piccolo ti senti strano, ti senti accusare di essere diverso, sbagliato, perché non sei come gli altri. Ma in verità ci sono molte persone ipersensibili, e quindi ho pensato di provare a dare qualche dritta a chi si trova nella mia condizione. È un libro che ho scritto con l’idea – la speranza – di poter essere d’aiuto”.

Un altro aspetto centrale della sua scrittura è la lievità, come si ottiene questo risultato? 

“È completamente spontaneo, fa parte del mio stile, è qualcosa che non si impara. Si impara la tecnica e si imparano a raccontare le storie. Ma lo stile è personale. Io sono così anche nella vita: l’ironia aiuta, perché piangere è un attimo. Piangere e far piangere è molto facile: basta pescare nella solitudine, nei drammi personali, siamo tutti segnati da lutti, perdite, e momenti di grandissimo sconforto. È più difficile il contrario. Ed è difficile agganciare il lettore. Io parto sempre con un incipit che faccia capire il punto di partenza della storia, e poi uso sempre la prima persona. Nei miei libri non c’è mai una voce narrante esterna, con le mie storie non funzionerebbe: crea troppa distanza, io invece voglio che il lettore senta di essere dentro la vicenda”. 

Ci sono altri elementi che ritiene particolarmente importanti?

“Cogliere l’attimo, con la battuta, con il colpo di scena. Chiudere ogni capitolo in un modo che invogli il lettore ad andare avanti. E poi bisogna imparare a ‘sfrondare’ il testo, perché è come la panna montata: se esageri diventa burro. Se si carica troppo di dettagli, di battute, diventa faticoso, bisogna cercare di dare un ritmo quasi cinematografico”.

Come funziona il processo di scrematura?

“Di solito quando comincio a scrivere vado avanti difilato, un po’ di capitoli per volta. Poi, quando ho finito, dopo circa una settimana rileggo tutto. A quel punto se ci sono frasi o parti che stonano, le tolgo. A volte è un dispiacere, perché devi uccidere qualcosa di tuo, però va fatto. La storia deve reggere dall’inizio alla fine, con ritmo costante, ed è qualcosa che leggendo avverti di pancia”.

Come costruisce i suoi personaggi?

“Devi averli sempre ben in mente. Ce n’è sempre uno che è un po’ più vicino a te, ma comunque non sei tu. Io di solito voglio molto bene al protagonista, perché ha le mie stesse difficoltà, però è molto più coraggioso, perché fa delle scelte che non farei mai. Anche gli antagonisti, però, devono essere forti e assolutamente dignitosi. In generale quando costruisco un personaggio ho in testa una persona, o un tipo di persona, e la descrivo. Faccio un collage di cose vere e presunte e creo il personaggio, che deve diventare coerente con se stesso. Non puoi fargli fare cose incongruenti con il carattere che gli hai dato. Un escamotage che odio è quello di far ubriacare i personaggi per fargli fare cose che altrimenti non farebbero, significa essere davvero a corto di idee”.

I social network hanno cambiato in qualche modo il tuo rapporto con i lettori?
“Tantissimo. Nel 2005 quando è uscito Mi piaci da morire ho aperto un blog in cui scrivevo post sulla vita quotidiana. All’epoca ebbe una grande eco e sono diventata amica di molti lettori, ci continuiamo a vedere ancora oggi. Poi è arrivato Facebook e ha creato un rapporto continuo e assoluto, ha azzerato tutti i passaggi. I lettori adesso ti scrivono e basta, senza passare dalla casa editrice o cercare la tua email, ti dicono cosa pensano senza filtri. E questo mi dà il polso di quello che scrivo. Ogni tanto mi contattano delle ragazzine che dicono di non aver mai letto un libro prima dei miei e di non aver più smesso di leggere. Oppure dopo l’ultimo romanzo, Non perdiamoci di vista [Garzanti, 2019 NdR], che parla di un gruppo di amici cresciuto negli anni Ottanta, mi scrivono quelli della mia età.

Da quale aspetto un aspirante scrittore dovrebbe partire per scrivere un romanzo con una trama realistica come le sue?

“Dall’essere onesto e dall’essere umile, non bisogna compiacersi troppo di quello che si ha scritto, perché qualcun altro lo avrà scritto meglio. E, nel testo, essere semplici, non fare tanti esercizi di stile, mantenersi immediati: avere ben chiaro che cosa si vuole raccontare. E poi si deve stare attenti a non scrivere la propria biografia: anche questo è un possibile errore, perché all’inizio si cerca di raccontare la propria storia, però se si vuole avere una lunga carriera ci saranno tanti altri libri da scrivere, e sarebbe un peccato bruciare tutto subito”. 

Se dovesse dare un unico consiglio a un aspirante scrittore, quale sarebbe? 

“Leggere buoni libri. Intanto i classici e, specialmente se ha in mente un genere particolare, i maestri di quel genere. Più ne leggi, più impari, la tecnica la assorbi anche senza dover studiare o fare corsi”.

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