Consigli degli autori

“Evitare gli stereotipi, anche nei gialli”: i consigli di Biondillo

di
Matilde Quarti
“La scrittura è sempre molto avventurosa, anche perché è un’esperienza conoscitiva: se un libro non diventa sorprendente per l’autore stesso è una noia mortale, no?”. A IoScrittore Gianni Biondillo, autore della fortunata serie dell’ispettore Ferraro e di numerosi altri libri, racconta la sua idea di scrittura e i segreti dietro un buon dialogo e dei personaggi riusciti.

Gianni Biondillo (nella foto di Yuma Martellanz ndr) autore prolifico di romanzi, saggi, testi teatrali e libri per bambini (e, non dimentichiamolo, architetto), è particolarmente amato dal grande pubblico grazie ai gialli con protagonista l’ispettore Michele Ferraro. Le vicende di Ferraro, ambientate principalmente tra Quarto Oggiaro e il resto di Milano, che viene raccontata in lungo e in largo, mostrano una città multiforme, di criminali e politici, di vecchi nobili e gente perbene che arranca per arrivare alla fine della giornata. Ma, soprattutto, le storie di Ferraro cercano di uscire dai cliché del “giallo” per abbracciare un pubblico vasto e affezionato.

Intervistato da IoScrittore, Gianni Biondillo racconta la sua idea di scrittura, il suo metodo di lavoro e alcuni segreti su due elementi molto importanti in un romanzo: i personaggi e i dialoghi.

Si ricorda com’è arrivato a pubblicare il suo primo romanzo?

“Me lo ricordo molto bene. Ho cominciato per puro caso: mi era venuto il desiderio di raccontare una cosa, quasi a me stesso, e ho iniziato a scrivere. Vivevo in un appartamento molto piccolo e il computer era all’ingresso, quasi davanti alla porta. Una sera vennero a cena degli amici e io avevo lasciato le prime sette pagine di quella cosa – perché per me era proprio una ‘cosa’ – che stavo scrivendo lì vicino all’ingresso. A un certo punto mi accorgo che una di queste persone era rimasta lì: aveva visto queste pagine e aveva iniziato a leggerle. Mi dice: ‘è molto bello, lo devi pubblicare assolutamente’. Insomma, quando ho terminato di scriverlo, quasi per gioco, ho fatto una stampata e l’ho data in mano a questa persona, perché io non sapevo proprio cosa farne, non conoscevo nessuno nel mondo dell’editoria. Due settimane dopo mi contatta una lettrice e mi dice: ‘a me il libro è piaciuto moltissimo, domani lo presento in Guanda!’”.

E Guanda lo ha accettato.

“Senza neanche dover spedire il pacco, mi sono ritrovato a parlare al primo editore a cui era stato portato fisicamente il libro. Luigi Brioschi mi ha telefonato per chiedermi di incontrarci – me lo ricordo ancora adesso – mentre stavo andando a lavorare in un cantiere in provincia di Lecco, da architetto quale io ero. Insomma è stata una fortuna sfacciata, dico la verità: non ho dovuto mandare il mio testo a decine di editori, non ho sofferto, non ho aspettato mesi, è stato tutto talmente semplice che quasi quasi me ne vergogno.”

Come le vengono in mente le storie della serie dell’ispettore Ferraro?

“Ho una produzione molto variegata, da saggistica, a libri di viaggi, a romanzi, a fiabe per bambini, e poi ci sono tutti i romanzi di Michele Ferraro, che in realtà sono solo un terzo dei libri che ho pubblicato. Sono un pessimo autore seriale, da questo punto di vista: non scrivo un episodio ogni sei mesi, come fanno molti altri autori, ma a un certo punto, non so mai quando, una determinata storia mi sembra naturale immaginarla dentro il suo mondo, con lui protagonista. Quindi non decido: ‘adesso scrivo un libro dove il protagonista è Michele Ferraro’. Quello che fa scattare la molla è misterioso, magari qualcosa che leggo sul giornale, o che sento raccontare, ma non so spiegare come succeda di volta in volta”.

E, a questo punto, inizia il processo di scrittura?

“Io non amo scrivere, se potessi lo eviterei in tutti i modi. Cerco di fare altro, mi invento sistemi per rimandare di continuo il momento dell’inizio. Mi spaventa perché so che diventerà un lungo viaggio, complicato, faticoso, che, certe volte, implica anche sofferenza. Lo dico sinceramente: è come entrare in un tunnel senza sapere se ne uscirai. Poi, a un certo punto scrivere diventa impellente, inevitabile: una tassa che devo pagare con me stesso. Allora mi ci butto dentro e diventa un viaggio tortuoso, anche noioso a volte, perché scrivere significa accettare l’idea che ti devi dare delle regole, degli orari ben precisi, dei risultati da raggiungere ogni giorno. Devi essere ragionieristico”.

Quindi è molto metodico nella scrittura?

“Cerco di darmi a tutti i costi un ordine, un metodo, una disciplina. Altrimenti non se ne esce, perché la scrittura di un romanzo implica molto tempo della tua vita, devi lasciare spazio a un altro mondo, che non è il tuo. Entro in una sorta di catalessi famigliare: le mie figlie e mia moglie mi parlano e io neanche le ascolto da quanto sono preso. Perché di fatto quando stai scrivendo lo fai per tutto il giorno, anche di notte quando dormi, anche quando mangi, anche quando fai una passeggiata. Sei sempre con la testa dentro quella cosa lì”

All’inizio di un nuovo libro, ha già in mente tutte le fasi della storia?

“Non deve necessariamente esserci un modo preciso per portare avanti una storia. Nel caso di quelle con Michele Ferraro, data la peculiarità del romanzo giallo, che prevede un enigma e la soluzione di una serie di meccanismi, è fondamentale sapere da dove sto partendo e dove arriverò. Però la navigazione è molto più misteriosa di quanto uno creda, diventa ingovernabile: molti dei personaggi si sviluppano in direzioni che non avrei immaginato, altri personaggi nascono all’improvviso e possono spostare la barra di tutta l’imbarcazione. La scrittura è sempre molto avventurosa, anche perché è un’esperienza conoscitiva: se un libro non diventa sorprendente per l’autore stesso è una noia mortale, no? Se tu sai già tutto, se è tutto chiaro, se è tutto logico, diventa prevedibile anche per il lettore. L’autore per primo si deve sorprendere di quello che sta scrivendo.”

Per quanto riguarda i personaggi, quanto è importante la loro caratterizzazione in un romanzo di genere?

“Le distinzioni non mi hanno mai convinto, le regole per scrivere un romanzo sono identiche, in qualunque genere: i personaggi devono essere veri, devono avere una profondità, devono avere una personalità. Bisogna, a tutti i costi, evitare lo stereotipo: sapere che esiste, utilizzarlo anche, però poi smontarlo. Molta della letteratura di genere, giallo o noir, vive di stereotipi, e quel tipo di libri, tendenzialmente, mi annoia. A me non piacciono i gialli, lo dico con tranquillità, perché sono spesso scontati, perché a un certo punto succede sempre una determinata cosa, e arrivano sempre il colpo di scena, la risoluzione… e i personaggi sono sempre uguali, quelli femminili sempre bellissimi, con le gambe tornite…”

Quindi lei cerca di giocare con i canoni del genere?

“Direi che non si possa fare altrimenti. Molti utilizzano gli stereotipi perché è la strada più facile, più breve. Però io, da lettore, ho tutto il diritto di dire che sono libri prevedibili e consolatori: il bene trionfa sempre sul male, il protagonista è sempre in qualche modo positivo, anche quando è un po’ sgarrupato… Sono dei meccanismi narrativi scontati. A me piacciono i libri scritti bene: Raymond Chandler scriveva dei libri bellissimi, non è un autore di genere, è un autore americano e basta”.

Un altro aspetto del giallo sono i dialoghi: quanto sono importanti in un romanzo?

“Quando entro in libreria faccio sempre la ‘prova dialogo’: apro a caso un romanzo di cui non so nulla dell’autore e cerco i dialoghi. Se sento che suonano falsi richiudo il libro. Quello del dialogo è uno dei momenti più complicati, perché quando metti in scena delle persone che dovrebbero essere vive ed esprimersi in maniera diretta, ti giochi la credibilità del personaggio. Mi capita spesso di leggere libri dove tutti i personaggi parlano allo stesso modo, indipendentemente se siano medici, avvocati, operai, o contadini, giovani o vecchi, italiani o stranieri. Parlano tutti allo stesso modo, che è la lingua dello scrittore. Ma, nella realtà, io stesso quando parlo con uno sconosciuto parlo in modo differente da come parlo con mia moglie, o con le mie figlie. Se già io nella mia vita quotidiana ho modalità, vocaboli e forme retoriche diverse in base a chi ho davanti, figuriamoci dei personaggi che sono di volta in volta differenti. In alcuni libri si trovano dialoghi iper-descrittivi, in cui il personaggio va avanti a parlare per mezza pagina: nella vita nessuno parla ininterrottamente senza mai confondersi, senza neanche un anacoluto, o un errore grammaticale.”

Da scrittore lei utilizza molto varie parlate e dialetti.

“Quella italiana è una situazione particolarissima, perché sono ancora molto importanti il background culturale, la storia famigliare, le origini… I dialetti sono parte vivente della lingua quotidiana. Allora questi elementi diventano necessari per caratterizzare il più velocemente possibile i personaggi. Vorrei che, aprendo un mio libro, un lettore che mi conosce dica: ‘questa frase non può che averla detta Augusto Lanza!’, ‘questa frase non può che averla detta Michele Ferraro!’, eccetera. Allora vuol dire che ho raggiunto il mio scopo: ho creato la personalità del personaggio senza bisogno di descriverlo. Per esempio: non ho mai fatto una descrizione fisica di Michele Ferraro, in nessuno dei miei libri. Eppure lui ha una personalità molto evidente, che passa attraverso i suoi pensieri, attraverso i suoi movimenti, il modo in cui parla. E l’utilizzo dei dialetti è strumentale all’interno di questa logica, non è semplicemente folclore. In un romanzo, uno dei miei personaggi si rivolge in calabrese a uno dei due poliziotti con cui sta parlando e in italiano all’altro, perché è un suo modo per distanziarsi o avvicinarsi, è un suo modo di rispettare o meno le persone che ha di fronte”.

Per concludere, se dovesse dare un unico consiglio a un aspirante scrittore, quale sarebbe?

“Di cercarsi un lavoro!” [E ridacchia sornione.]

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